Una serata con moni ovada Vagabondaggio nell'animo ebraico martedì 10 con un grande interprete
HIROSHIMA MON AMOUR HIROSHIMA MON AMOUR UNA SERATA CON MONI OVADIA Vagabondaggio nell'animo ebraico martedì 10 con un grande interprete u N evento speciale». Così presentano Moni Ovadia a Hiroshima Mon Amour. L'appuntamento è in via Belfiore martedì 10 ottobre (dalle 21,30 circa), in una serata nata in collaborazione con Radio Flash e Radio Popolare di Milano. «Si tratta di un'occasione rara per vedere all'opera un grande attore e un importante interprete di quella parte di cultura ebraica dedicata all'ironia e all'umorismo, caratteristiche che permeano da sempre la storia del "popolo eletto"», dicono all'Hiroshima. Quarantanove anni, nato da famiglia ebraica di origini bulgare, Ovadia si laurea a Milano in Scienze Politiche. Incomincia la sua attività artistica come cantante e musicista, guidato dall' etnomusicologo Leydi, e nel 1972 fonda il Gruppo Folk Internazionale. Dal 1990 Ovadia lavora, insieme alla Theater Orchestra, con il Crt Artificio. Un cultore di musica e di letteratura yiddish, Moni Ovadia. E' così pervaso dalle sonorità e dalle parole della tradizione ebraico orientale da farne il fondamento della propria espressione teatrale. Se gli chiedi, spiega: «Il lega¬ me suono-senso e unico, in ogni lingua. E lo yiddish per me è come un canto. Se recitassi in italiano si perderebbe molta della suggestione che si crea in teatro». E così, unendo la lingua yiddish alla musica (klezmer), Ovadia dà vita a spettacoli raffinati, divertenti e intelligenti. «L'appuntamento di mar¬ tedì - dicono all'Hiroshima - è un'occasione per conoscere un eminente rappresentante della scuola che ci ha abituato negli anni a sorridere per esempio con i Fratelli Marx, o con Woody Alien, o con Mei Brooks». In via Belfiore, Ovadia propone teatro comico. Ma l'attore-cantante ha qualche mese fa incantato il pubblico con uno spettacolo drammatico. Si tratta di «Dybbuk» (la parola nella cultura yiddish significa l'anima inquieta di chi, morto anzitempo e in modo violento, si reincarna per concludere la propria missione terrena), un'opera toccante sull'epopea tragica della deportazione e dello sterminio. Non vera azione teatrale, nell'allestimento, piuttosto una sorta di «cantata» con una partituta fonico-gestuale dalla quale esplodono minuscoli teatralismi e soprattutto il canto inesauribile, le implorazioni, le indignazioni, i sarcasmi, le malinconie; frantumi di poemi, di teatro, di scritture profetiche che si trasformano in sostanza dura, suscitano drammaticità, smuovono la coscienza. Cristina Caccia
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