EPILESSIA Deficit intellettuale? Leggete Flaubert...

Deficit intellettuale? Leggete Flaubert... Deficit intellettuale? Leggete Flaubert... FIODOR Dostoevskij era affetto da epilessia, il che lo portò ad avere contatti con molti medici verso i quali non nutrì mai molto rispetto. Nella lettera a un ammiratore scriveva: «Come possono essere utili all'umanità! Essi studiano quel tanto che basta ad avere visite a pagamento il più presto possibile». A più di un secolo dalla sua morte, il mondo medico scientifico ha in gran parte recuperato la propria immagine, grazie agli enormi progressi compiuti dalle neuroscienze in questi ultimi decenni, in campo sia diagnostico (vedi l'elettroencefalografia, la Tac e la Risonanza Magnetica), sia terapeutico. Una conferma di tutto ciò si è avuta nel recente Congresso Internazionale sull'Epilessia di Sydney, Australia, dove a oltre duemila partecipanti sono stati illustrati i più recenti risultati della ricerca nel settore. A questo proposito, la figura del grande scrittore lituano è parsa riassumere ancor più, in maniera emblematica, tutte le contraddizioni che l'epilessia, come malattia sociale, si è trascinata dietro di sé da millenni. Infatti, l'inaccettabile pregiudizio che i pazienti che ne sono affetti siano destinati al declino intellettuale è stato smentito sia storicamente dalla presenza di tale disturbo in personalità geniali come Dostoevskij, Flaubert e Van Gogh, sia dall'evidenza scientifica più attuale, che ha circoscritto le alterazioni più frequenti delle funzioni psichiche all'attenzione e alla memoria. Naturalmente, ogni caso fa storia a sé e indubbiamente il rischio «cognitivo» sopra menzionato (cioè, di essere distratti e ricordare poco) va tenuto in grande conto soprattutto in età infantile, quando più alta è la necessità di apprendimento continuo e corretto. Ancor più rilevanti, tuttavia, sono stati i dati riferiti sulle ricerche in campo farmacologico che, fortunatamente, hanno avuto un notevole sviluppo, permettendo l'identificazione e l'uso clinico di numerose nuove sostanze antiepilettiche. Disponiamo infatti oggi di almeno cinque farmaci della «vecchia» generazione (fenobarbital, difenilidantoina, primidone, carbamazepina, acido valproico); due «nuovi» farmaci di ormai consolidata efficacia (vigabatrin e lamotrigina); e di una decina di altri preparati «nuovissimi» in fase di avanzata sperimentazione animale e anche umana. Ciò che differenzia sostanzialmente le due ultime famiglie di farmaci rispetto alla prima, giustamente definibile «storica» (il fenobarbital è in uso antiepilettico dal 1912), è proprio il razionale approccio scientifico allo studio e all'impiego terapeutico delle molecole indagate. In altri termini, ognuno di questi nuovi farmaci è stato pensato, sviluppato e sperimentato in quanto rispondente ad alcuni presupposti di base della malattia «epilessia». Questi sono riassumibili, in maniera estremamente schematica, nel concetto chiave che la causa del disturbo sia da ricercarsi nello squilibrio tra sistemi inibitori e sistemi eccitatori a livello del sistema nervoso centrale. Esistono infatti in natura, e sono particolarmente presenti nelle cellule nervose, aminoacidi che esercitano o un'azione «inibitoria» (= di controllo) o un'azione «eccitatoria» (= di facilitazione) sulla generazione e propagazione dell'impulso elettrico da cellula a cellula. Tra i primi annoveriamo il Gaba (acido gammaamino-butirrico), la taurina e la glicina; tra i secondi l'acido glutamico e l'acido aspartico. E' verosimile che lo squilibrio tra meccanismi neuroinibitori e neuroeccitatori sia comune a diverse patologie, oltre all'epilessia (ischemia cerebrale, traumi cranici, corea di Huntington). I nuovi farmaci antiepilettici agiscono quindi direttamente o aumentando l'inibizione (= contenendo i meccanismi di «accensione» della fiammata epilettica), o diminuendo l'eccitazione (= rallentando i fenomeni di fiammate troppo violente). Questo si ottiene con processi di «manipolazione» chimica degli aminoacidi citati, ovvero sintetizzando prodotti che sono simili ad alcuni di loro (agonisti), o che agiscono in maniera del tutto opposta (antagonisti). I risultati clinici dell'uso di queste nuove terapie sono molto incoraggianti, e la speranza è che il nuovo secolo veda ulteriormente assottigliarsi quella fetta del 30% circa di pazienti che ancora non rispondono a nessun tipo di cura medica. Francesco Monaco scientifici la larva produce luce mediante una reazione di ossidazione con la parte terminale di 4 tubi (Malpighiani) che hanno funzione escretrice analoga ai nostri reni, ragione per cui essa utilizza per questa operazione prodotti di rifiuto. L'organo di produzione della luce è anche dotato di un riflettore (il tessuto respiratorio che fornisce ossigeno) ed è sotto il controllo di un centro nervoso: se l'animale è disturbato, può anche spegnere la luce, o aumentarla a suo piacere. Anche se è tutto pronto per una pesca fruttuosa, sembra che nella prima giovinezza Arachnocampa luminosa sia di dimensioni troppo piccole per approfittarne e che sopravviva invece dedicandosi al cannibalismo, cioè mangiandosi qualche vicino. In genere per le larve di Arachnocampa luminosa è conveniente vivere in gruppo, così da moltiplicare l'effetto luminoso, ma può essere ancora più vantaggioso diminuire la concorrenza, se il cibo scarseggia. Comunque la trappola luminosa funziona, perché gli insetti non sanno resistere al richiamo di una luce in un ambiente buio, scambiandola per una via di uscita verso il cielo stellato. E così, volando verso l'addome luminoso di Arachnocampa luminosa, una preda rimane intrappolata nella cortina dei suoi fili appiccicosi e, dimenandosi per liberarsi, avvisa il proprietario della sua presenza. Entro pochi secondi o minuti dall'ùnpatto, a seconda del caso, Arachnocampa luminosa trova il filo giusto dove è la sua cena: a testa in giù e con metà del corpo fuori dal nido tubolare, contraendo ripetutamente il corpo tira su il filo, finché la preda è all'altezza della bocca. Tra «pescare» una preda e mantenere efficiente la rete passano 9 mesi (o il doppio, nei casi più disperati) finché, raggiunto un peso adeguato, la larva rimuove alcuni fili, ne prepara uno più lungo e, ormai opaca, vi si appende per passare la fase di pupa, durante la quale si trasfonna in insetto adulto. Anche la pupa, immobile dentro la sua capsula, emette luce e mentre nel maschio tale capacità sembra priva di funzione, nella femmina ha uno scopo ben preciso. Non più per attrarre una preda, bensì un «marito», a conferma dell'ipotesi che le luci di adescamento di alcuni insetti, come le lucciole, sono evolute da primitivi organi luminosi con funzione predatoria. La luce diventa più intensa se la pupa viene toccata o se un maschio le passa vicino e di conseguenza non è raro vedere più maschi intorno a una pupa femmina in attesa che da essa emerga l'insetto adulto. A questo punto avviene la copulazione e poi via in volo, a meno che per un colpo di sfortuna l'insetto, dirigendosi verso la luce, non finisca nella cortina di fili appiccicosi del vicino. Maria Luisa Bozzi B] la preda resta intrappolata nel filo appiccicoso: il predatore se ne accorge perché la vittima si dimena per liberarsi, facendo vibrare il filo

Persone citate: Dostoevskij, Flaubert, Francesco Monaco, Huntington, Maria Luisa Bozzi, Van Gogh

Luoghi citati: Australia, Sydney