COM'È ' AMBIGUO IL DONO Starobinski ripercorre la storia della nostra civiltà: l'uomo rivelato da quello che offre e da quello che riceve

COM'È ' AMBIGUO IL DONO COM'È ' AMBIGUO IL DONO Starobinski ripercorre la storia della nostra civiltà: Vuomo rivelato da quello che offre e da quello che riceve CdipiCgiStmfeCo CCETTARE, vorrà dire non smettere più di desiderare». Così, nella prima pagina del suo libro, Starobinski commenta il gesto di offerta raffigurato dal Correggio nel suo u, riprodotto in sovracoperta del volume. Ambiguità del dono, dell'atto del donare e del ricevere, che attraversa nelle sue molteplici sfumature - a partire dallo stesso sottotitolo - l'intero saggio del critico letterario francese. In realtà questa feconda ambiguità riguarda non solo il contenuto ma anche la forma di questo scritto, in una felice simbiosi di significante e significato. Pubblicato come testo di supporto a una mostra al Louvre dal titolo Largesse, si rivela in realtà un saggio autonomo, al quale anzi è la mostra a fungere da supporto. Non un catalogo quindi per seguire meglio la mostra, ma una mostra intera messa al servizio di una sapiente rilettura del gesto del donare at< -averso i testi letterari e figurativi della cultura occidentale. Il debito alla mostra è saldato dall'apparato, davvero prezioso, che accompagna il testo: ben 24 tavole a colori e 60 illustrazioni in bianco e nero, un catalogo delle opere dettagliatissimo e accurato, una bibliografia esauriente sull'aspetto iconografico del dono e un elenco delle relative esposizioni tenutesi in tutto il mondo dalla fine del secolo scorso a oggi. Questa finalizzazione alla mostra causa anche alcuni limiti all'apparato bibliografico del testo vero e proprio: manca completamente una bibliografia della saggi¬ arvi Starobinski, autore del saggio «A /tiene mani», pubblicato da Einaudi stica sul dono e in particolare non è citato il fondamentale Lo spirito del dono di Jacques Godbout in collaborazione con Alain Caillé (Bollati Boringhieri 1993) uscito in Francia due anni prima della mostra del Louvre; inoltre viene citato il capostipite e «celebre Essai sur le don di Marcel Mauss (dopo il quale) bisogna senz'altro includere il dono in una storia e in una psicologia del dispendio», ma non vengono indicati da nessuna parte i minimi riferimenti bibliografici. Questo tuttavia nulla toglie al valore dell'opera: con la perizia dello studioso approdato alla critica letteraria dopo studi medici, psichiatrici e psicoanalitici e nel contempo con la dimesti¬ chezza del saggista uso a interpretare autori come Rousseau, Montaigne e Baudelaire, Starobinski ci narra - in un linguaggio fatto di immagini e parole la storia della nostra civiltà attraverso la chiave ermeneutica del dono, o per essere più precisi, del gesto del donare. «Sarebbe forse esagerato ritenere che l'intero corso della storia si manifesti come il processo che plasma e rimaneggia le forme dello scambio, per consentire di applicarle nei comportamenti individuali, nei costumi, negli usi collettivi, nelle strutture del linguaggio, nelle istituzioni...?». A giudicare dall'itinerario, che spazia - grazie anche a un'antologia di 25 brani letterari da Se¬ neca e Luciano di Samosata fino a Goethe e Victor Hugo, passando per Shakespeare e Molière - dalla Fortuna pagana alla Carità cristiana, alla poesia romantica e moderna, l'autore riesce nell'intento di darci un quadro di quello che siamo a partire da quello che doniamo e riceviamo. Operazione non semplice e a volte anche non piacevole, dato che la perenne ambiguità del dono rivela sovente la nostra mai risolta ambiguità. Il dono è cieco oppure ha di mira qualcosa? E questo qualcosa è il bene del ricevente o la gratificazione del donante? Elargire un dono è fatica sopportata in vista di una ricompensa - immediata o dilazionata - oppure è gioiosa manife¬ stazione di gratuità e altruismo? Ricevere un dono è accogliere l'altro o subire un'umiliazione? Favorisce l'uguaglianza sociale o scatena «risse di bambini», battaglie tra poveri? Di fronte a un'ambiguità così radicale, Starobinski riesce a non rinchiudere la propria riflessione in un pessimismo sterile, ma al contrario ad aprirla verso sempre nuovi scandagli e feconde piste interpretative. Non a caso il saggio si chiude dilatandosi, come la mostra, in tutta largesse, con magnanimità, «a piene mani»: «Non dovremmo fermarci qui: questo è il punto in cui la nostra ricerca dovrebbe allargarsi e ramificarsi in ogni direzioni, nell'ignoto del presente». Rimane possibile, deve rimanere possibile far emergere, anche dalla meschinità di un gesto o di una reazione, la potenzialità positiva che ciascuno di noi, donatore o ricevente, possiede come dono primordiale e inalienabile. Come annota Dag Hammarskjòld nel suo diario: «Il dono ti ha bruciato, così costoso e così al di sopra delle possibilità del donatore. Ti ha scottato come fiamma ardente, non perché ti preoccupassi delle risorse del donatore, ma perché il dono mostrava, senza scampo, la tua freddezza autocompiaciuta e mondana; pure nel più piccolo dono ci deve essere la volontà di donare tutto». Enzo Bianchi Jean Starobinski A piene mani Einaudi pp. 194, L 55.000 GUARDARE ai santi come a un modello che tutti sono chiamati a imitare può apparire insolito per i credenti di oggi, avvezzi a considerarli piuttosto come figure eccezionali e, per definizione, inimitabili. Si può anzi dire che il santo è rassicurante proprio perché irraggiungibile: se la sua virtù merita un premio speciale, il comune peccatore può attendersi almeno d'essere giudicato con indulgenza. Eppure la Chiesa ha spesso incaricato i santi di offrire un modello di comportamento concretamente fruibile dai semplici credenti, e non soltanto nel passato: l'esempio di Maria Coretti testimonia la sopravvivenza, in pieno Novecento, di quest'uso pedagogico della santità. Nella sua collana Sacro/Santo, che ospita saggi su tutte le forme della vita religiosa, ma in modo particolare sugli usi e abusi del culto dei santi, l'editore torinese Rosenberg & Sellier pubblica un volume intitolato appunto Modelli di santità e modelli di comportamento a cura di Giulia Barone, Marina Caffiero e Francesco Scorza Barcellona, in cui oltre venti specialisti italiani e stranieri analizzano il significato propagandistico ed esemplare della santità, dai primordi del Cristianesimo al nostro tempo. Nel corso di quasi duemila anni si è assistito a una progressiva democratizzazione della santità, e di conseguenza a un allargamento dei ceti sociali cui i santi insegnano come comportarsi. Conclusa la fase eroica del martirio, i santi dell'Alto Medioevo erano tutti gente di Chiesa, modello di comportamento per vescovi, monaci e badesse. Nella società feudale, i primi santi laici sono tratti dalla nobiltà, e offrono un modello per i grandi di questo mondo, invitati a pensare a Dio anche mentre fanno la guerra o siedono come giudici in tribunale. Alla fine del Medioevo, quando i poveri partecipano più direttamente alla vita religiosa, il messaggio può finalmente ri- Esempifulgidi usati come modello sociale & comportamento: dai protomartiri per fondare il clero a Maria Coretti perfortificare la famiglia ÌjO scopo: insegnamento morale e educazione di massa, ogni epoca, con un «target» preciso. Dal Medioevo a oggi beatificati nell ordine: vescovi, nobili e popolo Santa Maria Coretti E LA CHIESA INVENTA IL SANTO DI CLASSE volgersi anche a loro, e compaiono i primi santi di umile condizione sociale, destinati a duratura fortuna: ancora nell'Ottocento, i progressi dell'alfabetizzazione e le paure della borghesia moltiplicheranno le edizioni popolari delle Vite di sant'Isidoro contadino o di santa Zita serva, che seppero accettare con umiltà la loro posizione subalterna e obbedire fedelmente ai padroni. Insegnamento morale e educazione civile per le masse procedono affiancati anche nel nostro secolo. Maria Goretti, figlia di braccianti delle Paludi Pontine, è canonizzata nel 1950 da Pio XII non soltanto per ricordare alle giovinette il valore della purezza, ma in quanto «esempio di dedizione al lavoro come esigeva il suo ambiente familiare», mentre nel 1955 proprio santa Zita è proclamata patrona delle domestiche, come modello insigne «di obbedienza, di adempimento del dovere e di pazienza». L'evoluzione del target cui è indirizzata la letteratura agiografica fa sì che le Vite dei santi rappresentino un prezioso materiale per gli storici, attenti agli aggiustamenti che la Chiesa, in passato, ha sempre saputo introdurre nel proprio magistero, per accompagnare i mutamenti della società e della sensibilità collettiva. Così, all'esaltazione della verginità come valore supremo per uomini e donne si affianca nel corso del Medioevo il riconoscimento che anche nel matrimonio è possibile vivere una vita grata a Dio, come dimostra una folla crescente di santi e sante regolarmente sposati. L'idea, radicata fra gli antichi monaci, che solo entrando nella Chiesa sia possibile obbedire pienamente alla volontà divina è sconfitta, non senza resistenze, dal progressivo affermarsi della san¬ tità laica. Il pregiudizio contro chi commercia e maneggia denaro si rivela insostenibile dopo il Mille, nel nuovo mondo urbano, e il mutamento della linea ufficiale è apertamente confessato dalla santificazione di mercanti e artigiani. Spesso questo aggiornamento è reso necessario dalle richieste che salgono dal basso, e che la Chiesa non può permettersi di ignorare. Il santo dunque non è soltanto un modello imposto d'autorità, ma rappresenta anche, come osserva una delle più originali studiose contemporanee, Caroline W. Bynum, l'autocoscienza in evoluzione dei diversi gruppi sociali. Fra questi spiccano soprattutto le donne, che progressivamente impongono la propria interpretazione della santità, assai più sommessa e radicata nell'esperienza quotidiana di quanto non accada di solito alla santità maschile. Sommesso non significa però remissivo, giacché, almeno in vita, le sante sono tutt'altro che docili strumenti nelle mani della gerarchia ecclesiastica, e al tempo della Riforma protesteranno apertamente, per bocca di santa Teresa d'Avila, contro una società in cui gli interpreti della parola di Dio sono tutti maschi. A quella data, peraltro, l'invenzione del processo di canonizzazione ha ormai consentito ai papi di disciplinare un fenomeno originariamente spontaneo, assicurandosi che ovunque accedano alla santità le figure che meglio possono incarnare la Linea ufficiale. Non per nulla i protestanti aboliranno addirittura il culto dei santi, considerandolo nuU'altro che uno strumento di Roma per mantenere i cristiani nelle tenebre dell'idolatria. Eppure così forte era il bisogno di modelli, e l'abitudine ad ammaestrare attraverso l'esempio, che anche la Riforma ha creato la propria agiografìa. Ancor oggi le chiese dell'Europa protestante sono spesso intitolate a uomini che la coscienza collettiva assimila a veri e propri santi, come Dietrich Bonhoeffer, Albert Schweitzer e Martin Luther King. Il culto di figure esemplari in vita, ma soprattutto santificate dalla morte e dal martirio, è stato d'altronde praticato con entusiasmo nell'età delle ideologie. L'ultimo saggio del volume studia gli onori che la Rivoluzione Francese tributò all'assassinato Marat e agli altri «Martyrs de la Liberté», ma si potrebbe tranquillamente estendere l'indagine fino ai Pavlik Morozov di staliniana memoria, o ai caduti fascisti e nazisti di cui quei regimi, saliti al potere, promossero vigorosamente il culto fra i giovani. Fortunato il Paese che non ha bisogno di eroi, diceva Brecht; fare a meno dei santi, finora, si è rivelato ancor più difficile. Alessandro Barbero AA.W. Modelli di santità Rosenberg & Sellier pp. 446. L. 72.000

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