DECAMERON Un lessico con lacune: perchè ignorare Getto e Battaglia?

tuttolibri tuttolibri DECAMERON Un Lessico con lacune: perché ignorare Getto e Battaglia? IL genere critico dell'antologia è, in tutti i tempi, uno dei più fortunati, oggi, poi, in particolare, che si tende a non leggere più le opere per intero, ma per estratti, passi scelti, aspetti o momenti particolari, delegando all'antologizzatore più o meno autorevole la responsabilità dell'operazione di estrazione dei testi e della conseguente offerta al pigro ormai e frettoloso lettore, tanto più tale se si tratta di un docente in un qualsiasi livello di scuola, dal momento che il tempo dell'insegnamento si è sempre più ridotto a favore purtroppo di quello (perduto) di riunioni, discorsi, «confronti», ecc. L'antologia è, quindi, sempre un arbitrio, ma, acquisito questo concetto che è connaturato col genere stesso e non è da mettere in discussione a priori, si tratta di un arbitrio che deve apparire chiaro nelle giustificazioni di chi l'antologia ha messo insieme. Questo è vero per le antologie di poesia, di narrativa, di critica, di ogni altro genere letterario. Il guaio è quando il carattere relativo e opinabile dell'antologia è surrettiziamente celato perché la scelta appaia, invece, come assoluta, l'unica possibile quanto a indicazione di valori autentici, indubitabili. La premessa vale a presentare uno dei migliori esempi di antologia della critica dedicata al lavoro interpretativo intorno a un autore fondamentale della nostra letteratura, il Boccaccio col Decameron, quella curata da Renzo Bragantini e Pier Massimo Forni: Lessico critico decameroniano (Bollati Boringhieri, pp. 498, L. 70.000). L'impostazione è senza dubbio originale: proporre una serie di contributi e interpretazioni del Decameron, dovuti a diversi critici, come raggiera di proposte e di analisi da punti di vista metodologici quanto mai vari, tutti chiamati a illuminare per convergenza il vero significato del testo o, almeno, la maggiore quantità possibile di sensi, al di fuori di tutti quei pregiudizi moralistici o ideologici che hanno condizionato a lungo la considerazione dell'opera boccacciana. La scelta è organizzata argutamente come un «lessico», cioè come sequenza di termini interpretativi di aspetti fondamentali del Decameron: per esempio, l'architettura dell'opera, il dialogo, la lingua, la morale, il rapporto fra realtà e verità, il riso, la retorica e altri esponenti ancora. C'è, negli antologizzatori, una petizione di principio che mi trova completamente d'accordo e che è la rivendicazione della lettura del testo indipendentemente da ogni considerazione esterna che ponga in gioco categorie di giudizio riguardanti la «realtà» oggettiva dei fatti narrati, non il modo e l'intento della narrazione, l'unico che conti, dal momento che quei fatti noi conosciamo soltanto entro la rappresentazione che ne dà il Boccaccio, e, dora/ini Boc dora/ini Boccaccio accio quando anche appartengano alla storia o alla cronaca, soltanto valgono la forma e la prospettiva che loro ha dato il Boccaccio. Altro punto che condivido pienamente è il superamento del pregiudizio che il comico e il riso siano, nella letteratura, segno di un'arte minore, bene o male nata dal cedimento al pubblico corrivo, non raffrontabile, se non per limitarla, con la poesia sublime, «seria», tragica (e non per nulla il Boccaccio è stato contrapposto a Dante in questa prospettiva). Ed è da dire che la scelta dei curatori è saggia e avveduta: le pagine di Stussi, Delcorno, Bruni, Fido, Valli, Mazzacurati, Battistini, Branca e degli altri sono persuasive, capaci di suscitare nel lettore quella reazione agonistica che comporta la rilettura, secondo nuove prospettive, dell'opera del Boccaccio. Ma qui mi sorge qualche dubbio. Un'antologia del genere non dovrebbe far sorgere l'impressione che, in un modo o nell'altro, gli antologizzatori abbiano preferito, se non proprio una scuola critica, un ambito un poco circoscritto di esperienze esegetiche intorno al Decameron, lasciandone da parte altre, che avrebbero utilmente allargato la raggiera dei punti di vista. Mi dà qualche stupore, per esempio, l'assenza di Getto, a mio parere fondamentale anche metodologicamente nel quadro delle interpretazioni moderne del Decameron. Mi mancano anche Salvatore Battaglia, Baratto, Padoan, altri ancora. E' vero che ogni antologia, in quanto è una scelta, non deve essere giudicata per quello che in essa non c'è. Ma, limitando a determinate voci la testimonianza critica sul Decameron, non si corre il rischio della parzialità di scuola, anche se ben presentata e in modo ragionevole? Se è così, non sarebbe opportuno dirlo con chiarezza? L'antologia di poeti e narratori è sempre una scelta di poetica, di gruppo o, nel migliore dei casi, di un'impostazione di poetica o di storiografia letteraria. Per quel che riguarda la critica, le cose stanno un poco diversamente, nel senso che, lasciate pure da parte le interpretazioni ormai catalogate e depositate negli archivi della storia, la maggior parte di quelle attuali, ancora vive e, anzi, capaci di sollecitare vivacemente il lettore, dovrebbero essere documentate. L'originalità risentita e suggestiva del Lessico critico decameroniano come concetto e impostazione, non sarebbe stata offuscata dall'accoglimento di altri contributi non riconducibili forse a canoni di gruppo. Per finire: sì, Branca è presente con il saggio Per la storia del testo del «Decameron», certamente esemplare: ma come dimenticare il concetto di «epopea dei mercanti» come strumento di esegesi del Decameron, di cui tutti siamo debitori? Giorgio Bàrberi Squarotti IN assenza di Eschilo, di Shakespeare, probabilmente di Milton e Agrippa d'Aubigné, forse di Verdi, la drammatizzazione dello sterminio degli ebrei è meglio lasciarla stare. Questo ripetevamo ai nostri amici da poco svezzati che mesi orsono ci parlavano con emozionata ammirazione di «La lista di Schindler», un film a nostro avviso grondante invece falsume, cinefilìa epica da fast-food. E li esortavamo a leggere (a parte le testimonianze dirette dei superstiti) un libro apparso vent'anni fa che più d'ogni altro mira al cuore del mostruoso enigma, In quelle tenebre, di Gitta Sereny (Adelphi), indagine biografica su Franz Stangl, comandante del campo di Treblinka. L'autrice ebrea di origine ungherese e oggi affermata giornalista (ma il termine è riduttivo) in Inghilterra, torna ora su quella ineludibile lacerazione con un volume di grossa mole e grande livello che consigliamo vivamente a chiunque, come lei, non se ne capaciti, e con lei condivida l'idea che la seconda guerra mondiale sarebbe guardarle al pari di qualsiasi altra guerra se non ci fosse stato quel nero abisso battezzato dai nazisti Soluzione Finale. La Sereny, che i nazisti li vide da vicino, prima a Vienna, poi nella Francia occupata, poi come giovane reporter al processo di Norimberga, smaltì presto indignazione, odio, abominio ecc., per concentrare tutta la sua eccezionale sottigliezza, la sua instancabile capacità di ricerca, la sua contagiosa integrità intellettuale su una sola parola: capire. Non che tale volontà o necessità sia mancata in altri storici e scrittori, ma ciò che distingue la Sereny è di aver, sì, consultato migliaia di documenti, deposizioni, confessioni, atti processuali, e tuttavia di non essersene accontentata. Dietro quelle masse cartacee c'erano degli uomini, ed era con gli uomini, in carne e ossa, che bisognava confrontarsi. Di qui l'agghiacciante faccia a faccia con Stangl, burocrate dell'assassinio. Di qui anche questo In lotta con la verità, che porta il sottotitolo La vita e i segreti di Albert Speer, amico e architetto di Hitler (Rizzoli, pp. 832, L. 55.000). La sua vita, a dire il vero, Speer l'aveva già narrata dopo aver passato vent'anni nel carcere di Spandau con il best-seller Memorie del Terzo Reich (1971); e i suoi segreti li aveva più o meno svelati qualche Gitta Sereny: a tu per tu con l'architetto di Hitler Un genio che aveva scelto di non sapere o un complice della follia? anno più tardi nei Diari segreti di Spandati (1976). Ma la Sereny, entrata per caso in contatto epistolare e poi telefonico con lui ( 1977), trovò all'altro capo un uomo che le sembrò subito straordinario e insieme in qualche modo affine. Intelligentissimo, cortesissimo, nonché molto spiritoso. Il solo che a Norimberga si fosse assunto tutte le colpe sue, del nazismo e della Germania, ricavandone il disprezzo dei vecchi amici e camerati. Un tedesco di eccellente famiglia, colto, raffinato, sempre ben fornito di soldi durante la terribile crisi del dopoguerra. E dotato di una volontà, di una vocazione al successo che gli avevano fatto percorrere tre carriere in una vita: di massimo architetto del regime; del più «meravigliosamente efficiente» ministro della produzione bellica a partire dal 1942; e infine di celebrità letteraria mondiale con le opere autobiografiche. Una personalità affascinante, complessa, degna comunque del più vivo interesse. E da tutto ciò, a maggior ragione, l'impellente quesito: perché mai, come mai, un personaggio di tale rilievo potè vivere per anni accanto a Hitler, diventarne l'amico prediletto, assecondarlo passo passo nel suo delirio fin quasi all'ultimo, addirittura volare con grave rischio a Berlino per un estremo saluto a poche ore dal suicidio del Capo? Che cosa gli passava veramente per la testa in quel tempo di trionfi e di orrori? La Sereny ha dunque in mano il testimone ideale, l'unico in grado di aprire altre porte di quelle tenebre, giacché, è chiaro, un'impresa simile sarebbe inconcepibile con gente come Himmler, Goebbels, Gòring, lo stesso Hitler, se pure fossero a disposizione. Ed è chiaro il sottin-

Luoghi citati: Berlino, Francia, Germania, Inghilterra, Norimberga, Vienna