SIAMO GIÀ TUTTI CYBORG

Lettere Lettere e notìzie Nostra zia Elsa Moravia Caro Tuttolibrì, a rischio di offrire un nuovo pretesto a un certo clan di sedicenti «elsisti» devo assumere la difesa dei miei figli Daniele, Davide, Giacomo, Simone, destinatari della lettera di Elsa, a me nota dal suo arrivo e pubblicata da voi nel numero del 9 settembre (sono un vostro assiduo lettore fin dal primo numero). Al di là di ogni vostra intenzione, i miei figli (ormai tutti in età di difendersi da soli) potrebbero apparire affetti da una sorta di snobismo infantile, magari inoculato dai genitori. In realtà l'uso del cognome Moravia per la zia Elsa fu dovuto probabilmente soltanto a ragioni pratiche e cioè alla maggiore conoscenza anche postale di cui godeva il marito. Alle stesse ragioni pratiche deve aver obbedito Elsa quando, sul retro di una busta di cui allego fotocopia, si qualificò (con scrittura autografa) Elsa Moravia. Non detti allora rilievo alla cosa considerando (forse per eccessiva tolleranza) che un nome come quello di Elsa Morante non può subire oscuramento per effetto di una leggerezza grafica. Marcello Morante Quel tennista sabbioso L'attenzione dei critici è un privilegio raro e assai lusinghiero per chi traduce. Tanto più lusinghiera ci appare dunque la costanza con cui Masolino d'Amico segue ogni nostra nuova traduzione di A. S. Byatt, da Possessione ad Angeli e Insetti (ove ci attribuiva anche la traduzione dell'/fi Memoriam di Alfred Tennyson, dovuta invece a Cesare Dapino) ai più recenti // genio nell'occhio dell'usignolo e // fiato dei draghi. Antonia S. Byatt è autrice raffinata, erudita, imprevedibile per la continua tensione che sa imporre alla lingua oltre che alla narrazione. Difficile, dunque, da tradurre, ma eccitante. Forse per questo, deposta la matita rossa e blu, nel tradurre osiamo avventurarci sul terreno minato delle sfumature, delle allusioni, di un immaginario luminoso e fiabesco che inventa immagini ora virtuali ora virtuose. Così, imbattendoci in un Boris Becker da Mille e una notte, «ogni pelo dorato sul corpo dorato lucido di sudore» che un malizioso genio turco estrae a tradimento dalla scatola televisiva nonché da un combattutissimo torneo di tennis - l'abbiamo visto non biondo di ciglia, ma «sabbioso», per quei frammenti luccicanti di stille di sudore e terra rossa che la fatica del gioco deposita sul volto dei giocatori, tanto da impedir loro «di vedere se non una nebbiolina intorno a sé». Scelta eccessiva? Licenziosa? Può essere, ma un genio che coprì di baci la regina di Saba poco si sarebbe appassionato a un tennista solo «rosso di pelo». Anna Nadotti, Fausto Galuzzi Hamsun era norvegese Scrivo per segnalare un piccolo errore nell'articolo di sabato scorso sulle novità dei piccoli editori al castello di Belgioioso siglato I. g., là dove si parlava di due autori «svedesi» della casa Iperborea, citando Hamsun. Kurt Hamsun non è svedese, bensì norvegese. Tutto qua. Ma togliere alla Norvegia un così grande scrittore non era giusto. Fbi R Fabio Roma Ha ragione. (I. g.) Le muse di Sigma «Le muse cangianti» è il tema del nuovo numero di «Sigma», rivista semestrale di letteratura diretta da Lorenzo Mondo. Introdotto da un saggio di Goethe tradotto per la prima volta in italiano («Gli oggetti delle arti figurative», e commentato da Roberto Gilodi, il fascicolo ospita testi di Alberto Savinio e Fortunato Depero (con una nota di Ugo Nespolo) e scritti, fra gli altri, di Paolo Gallarati (Da Ponte), Giorgio Pestelli (Natasa Rostov), Barbara Lanati (il Bloomsbury), Giuseppe Zaccaria (D'Annunzio). NELLO studio luminoso di Voltaire a Ferney, in Svizzera, con ampia vista sul lago di Ginevra e sulle Alpi, le cui cime si perdono tra le nuvole, un servitore si presenta annunziando qualcuno che chiede di essere ricevuto. Non ha detto il nome, né sembra che voglia dirlo. Ma «sua signoria dovrebbe conoscerlo»: è di statura bassa, rotondo, anziano, pochi capelli bianchi, pelle abbronzata. Voltaire non sa chi sia, ma è stanco di scrivere e dice di lasciarlo passare. Il visitatore entra, con fare modesto e quasi timido, e si presenta: «Sono Orazio». Comincia, così, un dialogo immaginario, genere a cui ci ha abituato la letteratura contemporanea. E' un modo di valutare due personaggi, di porne in luce i caratteri e le idee attraverso il confronto; e se i protagonisti sono lontani secoli o millenni, tanto meglio, perché la dialettica riuscirà più efficace. Questa via, dunque, ha scelto uno dei nostri più insigni latinisti, Antonio La Penna, per illuminare la figura di Orazio, e di riflesso quella dei suoi interlocutori: che sono più di uno, come vedremo, di diversa epoca e natura. S'intende che, per utilizzare un tale genere letterario, occorre un pieno e profondo dominio dei personaggi, delle loro opere, della loro cultura: altrimenti, chiunque abbia approfondito la conoscenza dell'uno o dell'altro potrebbe facilmente cogliere errori. Ma questo non è certo il caso del nostro latinista, che procede sicuro nell'evocazione del dialogo, con una serie di notazioni caratterizzate e ambientali che ne accentuano la vivezza. Non senza una qualche solennità: perché Orazio, nel presentarsi, ricorda il suo celebre «non omnis moriar» («Non morirò totalmente»), che IA letteratura femminista contemporanea ha avuto spesso cose illuminanti da dire su varie questioni di interesse generale, nonostante fossero prese in esame nell'ottica prioritaria della condizione femminile. Disuguaglianze sociali, forme di sfruttamento, discriminazioni etniche, teorie e pratiche mediche, organizzazione del lavoro nella società, nella fabbrica e nella famiglia, sono soltanto alcuni dei temi sui quali essa ha gettato una luce originale, sì da svelare di essi aspetti insoliti o anticiparne sviluppi che non coinvolgono certo soltanto le femministe, e nemmeno soltanto le donne. Ciò è tanto più vero per quel filone di critica cultural-politico-fantascientifica al quale si addice il nome di «femminismo tecnologico», e che ha in Donna J. Haraway una delle sue autrici più in vista. Tratto distintivo di questo filone della letteratura femminista è, in contrasto con le posizioni del femminismo tradizionale più vicine agli umori antitecnologici dell'ecologia profonda, l'accettazione esplicita della tecnologia. Per le autrici di questo filone la tecnologia in tutte le sue forme è al tempo stesso una sonda e una leva, uno spettrografo di massa e un codice d'accesso che insieme rivelano e impongono una ridefinizione totale della condizione umana affacciantesi sul terzo millenio. Al centro delle attenzioni del femminismo tecnologico v'è il corpo. Che non è più quello che conoscevamo, si tratti del nostro o di quello di altri. Il corpo è stato sezionato, atomizzato e ricostruito in forme nuove, intrinsecamente fluide, da una miriade di tecnologie interdipendenti. I suoi recessi più intimi sono stati rivoltati e portati alla luce da strumenti endoscopici sempre più raffinati, tomografie assiali, ecografie, traccianti radioattivi. Protesi elettroniche miniaturizzate sostituiscono sia organi che funzioni. Alla riproduzione che fu detta naturale le tecnologie biomediche hanno affiancato dozzine di modalità opzionali per produrre nuovi corpi. La mente è ormai un'interfaccia di mfiniti altri terminali, una cellula neuronale inserita in un cervello planetario. E il corpo intero, tramite la mappatura del Dna, si sta trasformando in un testo di microistruzioni, prontamente trasformabile in un programma informatico. Ricordate «Andromeda», il racconto nel quale un essere «Siaiìio tutti impastati di debolezze e di errori, perdoniamoci reciprocamente le nostre sciocchezze^ ha trovato conferma nel giudizio dei posteri. Ma Voltaire non è da meno, e Orazio glielo riconosce avviando il dialogo: «Anche tu hai dato alla mia immortalità un bel contributo, e io sono venuto anche per ringraziarti; del resto nessuno ti supera nell'arte di creare e amministrare la fama, a cominciare dalla tua». Tuttavia, Orazio ha da ridire sull'elogio fattogli da Voltaire: «La poesia di cui fai amabilmente l'elogio è quella dei vostri salotti; le mie liriche vi piacciono come le chincaglierie cinesi che mettete sui vostri mobili». E ancora: «Su tutto mettete le vostre parrucche, spargete la vostra cipria: anche sulle mie ninfe e sui miei satiri». Che però sia questo il mondo di Voltaire, sembra al tempo stesso giusto e ingiusto: giusto per il suo ambiente, o per parte di esso; ingiusto per lui, che vede bene il mutamento in corso. «Ora i letterati - risponde a Orazio - avvertono altre richieste: poesia sublime, non frivola; fantasia impetuosa, non rigore; freschezza primitiva, ingenua, non l'arte per l'arte; mistero, non clarté». Dal che, acutamente, Voltaire deduce uno sviluppo che non gioverà ad Orazio: «Forse ci libereranno una buona volta dai greci e dai romani... Saranno tempi molto difficili, mio diletto Orazio, sia per te sia per me». C'è un atteggiamento mentale in cui Orazio e Voltaire particolarmente si riconoscono, la tolleranza. E' Orazio stesso a citare il suo interlocutore: «Siamo tutti impastati di debolezze e di errori: perdoniamoci reciprocamente le nostre sciocchezze, è la prima legge della natura». E subito dopo, per confronto, Orazio cita se stesso: «I dolci amici mi perdoneranno, se per stoltezza avrò peccato; a mia volta sarò tollerante per i loro errori con lieto animo. Tu sarai re; ma di te più felice io vivo, semplice cittadino». La tolleranza, sia chiaro, è nel caso di Orazio e di Voltaire un frutto della saggezza, non della fede. Prima di allontanarsi, sparendo come un fantasma, Orazio rende a Voltaire l'ultimo omaggio, citando con commossa adesione i versi finali del poemetto sul terremoto di Lisbona: «Una volta un califfo, giunto all'ora estrema, / al dio che adorava rivolse questa sola preghiera: / "Ti SIAMO GIÀ' TUTTI CYBORG dall'aspetto umano viene ricostruito in un laboratorio terrestre in base ai segnali radio-inviati da extraterrestri, che indicano quale composto chimico va accostato ad un altro? L'attuale progetto Genoma Umano, inteso a riversare in una banca dati l'intero codice genetico di Homo, sarà ricordato tra qualche tempo come un passo essenziale nella stessa direzione, verso il fine ultimo di fabbricare corpi a volontà, con caratteristiche predefinite, qui sulla Terra o nello spazio. Stiamo dunque correndo davve¬ ro il rischio di diventare tutti dei cyborg? (Parola che come ognun sa viene da ciòernetico organismo e che potremmo quindi ben cominciare a scrivere ciborg, come si scrive ciberspazio, cibernauta ecc.) Di fronte a simile domanda un'autrice come Haraway avrebbe ogni motivo di mostrarsi irritata. Non stiamo semplicemente rischiando di diventare dei cyborg, risponderebbe: lo siamo già. Lo siamo già perché entro di noi come attorno a noi il naturale e l'artificiale sono diventati indistinguibili. La cultura politica, scientifica, ecologica

Luoghi citati: Ginevra, Lisbona, Norvegia, Roma, Svizzera, Voltaire