L'EXPLOIT FELTRINELLI SI CHIAMA D'INA

\ \ J curezza: «dove ci si preoccupa della forma è poesia e dove c'è disinteresse formale è prosa. No, questo è grossolano». Nei tempi nostri, avverte, «ha agito molto sulla scrittura lo smascheramento del linguaggio. La psicoanalisi, il marxismo, più di recente la semiologia hanno disvelato i meccanismi linguistici. In questa luce la poesia si avvicina alla prosa, arriva a inglobarla. La poesia della neoavanguardia ha inglobato quanto più possibile di gerghi: filosofici, scientifici. Ma anche Leopardi lo faceva. Nella Palinodia il lirico, liricissimo Leopardi diventa poeta gnomico». No, nessuna distinzione nelle categorie, ma solo attenzione alla storia, sempre un po' pendolare in questi rapporti, che ora si avvicinano e ora si allontanano. £ oggi «la poesia ha bisogno di vitalizzarsi, nutrendosi di prosa. Mentre la prosa può impreziosirsi, diventare più leggera, ispirandosi a certi caratteri della poesia». Uno scrittore attento ai valori del ritmo come Antonio Tabucchi nella scelta di Calvino si riconosce: «Aderisco abbastanza alla sua definizione». E basta leggere una sua pagina per capirlo. Ma discute la prospettiva storica. «Calvino porta allo scoperto un concetto che corre anche all'estero sulla, nostra letteratura, considerata lirica. Io non so se questa dicotomia esiste. E' vero che il nostro fondamento è la Commedia. Ma c'è subito il Decamerone, che non so se si possa considerare un libro poetico. E così nei secoli successivi, fino a oggi. Pirandello nelle novelle e nei romanzi non è molto poetico. E' forse un autore minoritario?». Per sé, lo scrittore di Pereira si colloca sull'altro versante. «Credo di avere spesso, umilmente, sfiorato la poesia. Addirittura ho scritto dei testi che io chiamo "prosa in prosa", perché chia¬ marli "poèmes en prose" sarebbe presuntuoso. Sono umili tentativi». Ma in tutta l'opera di Tabucchi, osserviamo, è ben avvertibile la musicalità della scrittura, il calcolo della pagina. Lo scrittore condivide; e subito abbassa il tono: «Questo è un atteggiamento di certi scrittori, fra i quali mi includo volentieri, che sentono l'invidia per la poesia». Nessuna invidia, ma anzi scelta consapevole, è quella di un autore della nuova generazione, Marco Lodoli. «lo non sposo nulla, a me piacciono i narratori assoluti, come Balzac e Dumas. Ma più vado avanti negli anni e più mi emoziona una letteratura che deriva dalla poesia». A differenza di tanti suoi coetanei (il termine generazione non gli piace), Lodoli è decisamente per la scrittura poetica: «Concepisco la pagina come potrei concepire un sonetto, con le assonanze, i rimandi interni, gli equilibri invisibili e fondamentali». E non solo per ragioni stilistiche. «Ho bisogno di qualcosa che rappresenti una esperienza interiore: e questo è vicino alla poesia». Ma perché in Italia ci sono tanti poeti - anche in prosa - e così pochi narratori? Cerca di spiegarlo, da poeta e da critico, Giovanni Raboni. «La ragione è sociologica. Nel grande romanzo inglese o francese o russo ci sono i riti della società, che sono l'oggetto naturale del romanzo. Il narratore li prende di mira, o per celebrarli o per combatterli. In Italia non è mai esistita una società formalizzata. Quei riti non ci sono, o sono meno forti». Calvino però fa l'esempio di Moravia, che c'è, forte. «Moravia è un'eccezione in tutto: compresa la sciatteria, che di per sé non sarebbe indispensabile». E si ritorna al problema del linguaggio, al «come dire», con le sue necessità e i suoi pericoli. «Nella letteratura italiana - riconosce il poeta - la bella prosa supplisce spesso all'assenza di una sostanza romanzesca. Ripara, con il "come dire", ai vuoti del "cosa dire"». Ma questo, certamente, non è imputabile alla scrittura di Calvino. E non può essere mai un passaporto per la sciatteria che ci assedia. Giorgio Calcagno ( 'alvino: • La nostra letteratura lui sempre avuto ionie stia assilli parsili» Tabucdu: ■ ( Vii Ai ili ri/v/r SfJfìSSO, umilmente, sfumila la jxusiii- I il dibattito LA PAROLA RITROVATA FRA METRICA E IMPEGNO w j\ IAGG1ATORI venuti da I / lontano ci portano notizie II sulla poesia. Sono i critici, ■ gli studiosi, i poeti che si ' I sono raccolti due anni la a Roma per fare il punto sulle ultime tendenze della poesia italiana. I loro interventi - una quarantina - vengono raccolti oggi in un volume di Marsilio, La parola ritrovata, a cura di Maria Ida Gaeta e Gabriella Sica. Si parla molto di orfismo e di mito, in queste pagine, ma anche di lingua e di metrica, secondo le quattro direttrici su cui si articolava il convegno: facendo capire subito quanto sia frantumata, magmatica, la situazione oggi. Tutti avvertono la condizione di isolamento, la cesura in atto fra poesia e società: ma alcuni cercano di superarla, altri ne sembrano appagati, se non compiaciuti. Notevoli gli interventi di Giancarlo Pontiggia, Giulio Ferroni, Alfonso Berardinelli. Da incidere un giudizio di Franco Loi: «Oggi la poesia è forse l'unica istanza di resistenza al processo in atto di disgregazione dell'uomo e della società civile». Ig. e] L'EXPLOIT FELTRINELLI SI CHIAMA D'INA AMILANO LLA Feltrinelli si sentono addosso gli occhi di editori e critici, dopo la vittoria dei maggiori premi letterari. La Feltrinelli sbanca perché pubblica tutto, è «come quelli che vincono la lotteria dopo aver comprato tutti i biglietti», ha detto all'Espresso il critico Filippo La Porta. «La Porta sbaglia replica Gabriella D'Ina, direttore editoriale -. Sono soltanto nove all'anno i nostri titoli di narrativa italiana». «E adesso, povero giovane scrittore?» s'è domandato sull'Unità Ottavio Cecchi dopo il mutamento di rotta da parte di Theoria. Come dire: dove mai si pubblicheranno i romanzi nuovi? «In cinque anni Theoria ha pubblicato quattro esordienti, noi 17 - osserva Gabriella D'Ina -. Siamo al secondo posto dopo i 21 di Mondadori». Che sia proprio lei, Gabriella D'Ina, 53 anni, milanese, all'origine della nuova primavera feltrinelliana? Il catalogo lo firma dal '91 in una piccola stanza bianca fitta di carte ma ordinata e silenziosissima. Come lavora Gabriella D'Ina? Con quali criteri sceglie i romanzi da pubblicare? «Mi piace l'ironia, il paradosso, la trasgressione - risponde -. Mi piacciono gli autori che non si accontentano di riprodurre la realtà ma la reinterpretano con il linguaggio. Le avanguardie, una tradizione in Feltrinelli, sono state utilissime». Gabriella D'Ina, 53 anni, direttore editoriale Feltrinelli E' il primo punto. C'è poi il modo concreto di raggiungere l'obiettivo: «Tanto per cominciare leggo e faccio leggere tutti i dattiloscritti che mi arrivano - dice -. E rispondo a tutti». Uno sconosciuto, come fa a valutarlo? «Guardo l'inizio: mostra subito se il libro funziona. E leggo qua e là soprattutto i dialoghi, quasi infallibili nel rivelare qualità. Dev'esserci nel testo la volontà di comunicare, non l'avvitamento narcisistico». Superato il primo esame, comincia la battaglia con l':utore. Francesco Piccolo, ad esempio: 25 anni, di Napoli, prossimo esordiente. Ha mandato un racconto a Starnone, che l'ha girato a lei: «Piccolo, non ci siamo - gli ha detto -. Cambia questa parte, taglia quest'altra». Lui esegue, lei rigiudica, lui riscrive ancora: «Alla fine gli ho fatto un contratto». E autori già affermati, come un Tabucchi, accettano modifiche? «Quando al telefono mi disse il titolo Sostiene Pereira, per poco non stramazzavo. Ho capito dopo che andava benissimo». E Sandro Veronesi? «Sono riuscita a fargli tagliare soltanto sei pagine». «Accudire, motivare chi scrive, questo è il mio scopo - dice Gabriella D'Ina -. Far nascere un autore... Sarà perché non ho figli». E' convinta che «la parola dà salvezza». Per lei un libro è «sacro». Da bambina leggeva un giorno su una seggiolina rossa sul balcone un libro che la faceva piangere: allora lo chiuse per proteggerlo dalle lacrime, si asciugò gli occhi, lo riaprì. E uno zio in Maremma le recitava d'estate versi di Virgilio e le raccontava degli Etruschi: lei smise di giocare a nascondino in quelle tombe vuote, dove raccoglieva «coccetti». E a Cecina una vecchia signora, seduta la sera davanti al portone di casa, diceva Dante a memoria: «Ricorditi di me che son la Pia...». Così le è nato il culto delle parole. Al liceo leggeva i russi la notte sotto minuscoli abat-jour: dopo un po' sentiva odore di plastica bruciata, il cappuccio si torceva e addio luce. Codici favolosi, corali e antifonari estraeva con meraviglia nelle biblioteche, negli archivi, nelle pievi, quando cercava illustrazio¬ ni per le dispense della Fabbri: era il suo primo lavoro, mentre studiava all'Università. Poi i passaggi alla Rizzoli e alla Bompiani: «Valentino Bompiani è stato il mio vero maestro, anche nell'editoria». Ha curato l'edizione delle lettere in Caro Bompiani. Gabriella D'Ina («il mio cognome ha una componente ebraica: la famiglia di mio padre è venuta via dalla Spagna nel Quattrocento») ha riordinato in Feltrinelli la saggistica («per renderla più compatta»), cerca anche nella narrativa straniera scritture trasversali e inquiete, senza dimenticare autori collaudati come la Allende, la Gordimer, la Lessing. Alleva nuovi editors, si consulta con gli autori più vicini («Benni, nostra coscienza critica»), trova che il suo lavoro risponde a un clima, a un progetto comune: Carlo Feltrinelli ha entusiasmo, «la signora Inge» nelle riunioni porta folate, «quel che succede nel mondo». I raid vittoriosi nei regni di Campiello, Viareggio e Strega le appaiono.a questo punto «un premio per il nostro lavoro di ricerca, che potenzieremo». Le piacerebbe varare una collana di poesia: «E' il momento». Lei stessa scrive poesie, che pubblica con discrezione. Poesie ironiche e intense, con immagini di ricordi: in omaggio a ricordi lontani ha voluto prender casa in via Volterra, e nei weekend va a Nesso sul lago di Como «perché Nesso è l'anagramma di Senso». Claudio Altarocca

Luoghi citati: Cecina, Como, Italia, Napoli, Nesso, Roma, Viareggio