Lager, il destino dell'Occidente

Lager, il destino dell'Occidente Lager, il destino dell'Occidente «E' la matrice della politica in cui viviamo» nuda vita, che esce da Einaudi. Non si tratta di un pamphlet o di un libro d'intervento, ma di un testo che sviluppa una tesi filosofica, con un percorso di lettura anche arduo - sebbene mitigato da una scrittura raffinata -, in cui s'incontrano Aristotele, Platone, il frammento pindarico sul nómos basilèus, enigmatica congiunzione di violenza e diritto, Hobbes, Heidegger, Cari Schmitt e la teoria della sovranità, Emmanuel Lévinas, Hannah Arendt, Kafka letto da Scholem e da Cacciari, la Critica del potere di Benjamin, il concetto di biopolitica in Foucault, fino a un libro di Toni Negri sul potere costituente. L'approdo finale di questo itinerario è una revisione radicale delle categorie politiche comunemente utilizzate. Con esiti sconcertanti: lo stesso autore confessa nell'introduzione di essersi trovato alle prese con problemi «che non erano stati messi in conto». Con questo libro Agamben si colloca fra quei pensatori che Norberto Bobbio considera antidemocratici non nel senso che siano contro la democrazia ma nel senso che mettono in evidenza la crisi e i limiti della democrazia, come il Guéhenno della Fine della democrazia o lo Zolo del Principato democratico. L'autore è consapevole di avanzare, «sia pure con ogni prudenza», la ■m I Lager sono sempre tra noi. I Liberarcene è un'illusione. I Da quando i deportati pasI savano sotto la grande _JLI scritta «Arbeit macht frei», il lavoro rende liberi, per diventare ciascuno «un uomo vuoto, ridotto a sofferenza e bisogno, dimentico di dignità e discenùmento» (Primo Levi, Se questo è un uomo), il campo di concentramento appartiene irreparabilmente alla modernità e alla normalità, o meglio ciò che il campo rappresenta: la sospensione del diritto e la fine della distinzione fra vita naturale ed esistenza politica. Tutto questo non rappresenta un'eccezione, figlia dei totalitarismi, ma «è la matrice nascosta della politica in cui ancora viviamo», un carattere essenziale anche delle attuali democrazie. Perché «il campo e non la città - cioè non la polis è il paradigma dell'occidente». Il nazismo e il fascismo non sono una parentesi, ma hanno impresso un marchio indelebile nella nostra storia: questo campo che «dobbiamo imparare a riconoscere attraverso tutte le sue metamorfosi». Chi lo dice? Il filosofo Giorgio Agamben - curatore dell'edizione italiana delle opere di Walter Benjamin, già autore di II linguaggio e la morte (1982) e La comunità che viene (1990) - in un nuovo libro, I Homo sacer. Il potere sovrano e la Masolino d'Amico scandalosa tesi «di un'intima solidarietà fra democrazia e totalitarismo». Infatti «soltanto essa potrà permetterci di orientarci di fronte alle nuove realtà e alle impreviste convergenze di fine millennio», anche se non autorizza la liquidazione delle enormi differenze storiche fra i due sistemi. Il punto di partenza dell'audace esplorazione è la misteriosa figura del diritto romano arcaico che dà il titolo al libro: l'homo sacer, persona sacra, proprietà degli dèi, quindi non sacrificabile, ma che si poteva impunemente uccidere perché condannata per un delitto. Secondo Agamben, né i romani né i moderni hanno risolto la contraddizione che s'incarna nell'homo sacer, tabù che si poteva uccidere senza per questo contaminarsi. «Che cos'è allora la vita dell'homo sacer, se essa si situa all'incrocio di una uccidibilità e di una insacrificabilità, al di fuori tanto del diritto umano che di quello divino?». L'ipotesi di Agamben è che in questa figura si possa intravedere una struttura politica «che ha il suo luogo in una zona che procedo la distinzione fra sacro e profano, fra religioso e giuridico». Il campo di annientamento nazista avrebbe la medesima natura: se esso rappresenta «la più assolta conditio inhu mana che si sia data sulla terra», ciò è avvenuto perché è lo spazio di una impossibilità di decidere tra norma e applicazione, fra eccezione e regola. «Il campo è un ibrido di diritto e di fatto, in cui i due termini sono diventati indiscernibili». Per cui la politica diventa potere sulla «nuda vita», sulla vita biologica, quella che i greci chiamavano zoé. Ma allora «ogni volta che viene creata una tale struttura indipendentemente dall'entità dei crimini che vi sono commessi» noi ci troviamo in presenza di un campo, «che dobbiamo imparare a riconoscere attraverso tutte le sue metamorfosi». Ecco il punto chiave della provocatoria tesi di Agamben. I nuovi campi sono intorno a noi: nella Bosnia macellata ma anche nello squallore d'una periferia metropolitana. «Sarà un campo - egli scrive tanto lo stadio di Bari in cui nel 1991 la polizia italiana ammassò provvisoriamente gli immigrati clandestini albanesi prima di rispedirli nel loro Paese, che il velodromo d'inverno in cui le autorità di Vichy raccolsero gli ebrei prima di consegnarli ai tedeschi; tanto il Konzentrationslager fùr Auslàn der a Cottbus-Sielow in cui il governo di Weimar raccolse i profughi ebrei orientali, che le zones d'attente negli aeroporti internazionali francesi, in cui vengono trattenuti gli stranieri che chiedono il riconoscimento dello statuto di rifugiato». L'ultima pagina è una dichiarazione di pessimismo: «Dai campi non c'è ritorno verso la politica classica». In essi, «la possibilità di distinguere fra il nostro corpo biologico e il nostro corpo politico, tra ciò che è incomunicabile e muto e ciò che è comunicabile e dicibile, ci è stata tolta una volta per tutte». L'unica via di scampo, l'unica speranza di sopravvivenza, è riconoscere che questa natura «biopolitica» delle democrazie occidentali «rende vano ogni tentativo di fondare nei diritti del cittadino le libertà politiche». E da qui ripartire. Verso non si sa che cosa. Alberto P apuzzi

Luoghi citati: Weimar