SCRIVERE CON LA LEICA Federico Patellani, pioniere del nostro fotogiarnalismo Dall'Africa all'Italia del dopoguerra, come raccontò il mondo di Stefano Bartezzaghi

SCRIVERE CON LA LE ICA SCRIVERE CON LA LE ICA Federico Patellani, pioniere del nostro fotogiornalismo Dall'Africa aWItalia del dopoguerra, come raccontò il mondo LE prime immagini importanti realizzate da Federico Patellani risalgono al 1935: sono un lungo reportage sull'Africa Orientale dove Patellani, ventiquattrenne ufficiale del genio, era stato inviato dopo il servizio di leva. Dalle immagini si sviluppa una narrazione dettagliata di un'esperienza personale e di un evento collettivo, dove aneddoti e storia si fondono a creare un servizio giornalistico ricco di informazioni. Al ritorno dall'Africa, infatti, Patellani venderà molte immagini al giornale milanese della sera L'Ambrosiano, e comincerà a trovare nella fotografia gli stessi interessi e le stesse gratificazioni che la giurisprudenza da un lato e la pittura dall'altro gli offrivano in quegli anni. Nel 1939, persuaso da Alberto Mondadori, Patellani lascia definitivamente toga e pennello (che riprenderà, quest'ultimo, solo quarantanni più tardi) per entrare a far parte della redazione del Tempo, giovanissimo settimanale che, fra i primi, sull'esempio dell'americano Life, iniziava ad utilizzare l'immagine fotografica non come illustrazione didascalica o riempitiva, ma come autonoma possibilità di informazione. Nell'agosto del 1939 Patellani esordisce, quindi, sul Tempo con un "fototesto", cioè un ricco servizio di immagini corredate da lunghe didascalie, con il quale si propone di "realizzare una formula di giornalismo illustrato moderno, nella quale il racconto sia affidato in prima linea alla fotografia, mentre alla parola - brevi testi e didascalie sia riservata la finizione di raccordo e commento". E' la nascita di una formula destinata ad un immediato successo, con la quale Patellani è in grado di riproporre le tecniche narrative di un altro media che in quegli anni lo affascina (sempre nel 1935, infatti, è in società con Carlo Ponti per produrre Piccolo mondo antico). Ma se il suo raccontare giornalistico si serve di più immagini, in ognuna di esse sa congelare un frammento di realtà colto in quel "momento decisivo" che farà più tardi scrivere a Mario Soldati: "Le foto di Pat saranno scambiate per foto di splendidi cortometraggi... Cinema senza movimento..."». Così Kitti Bolognesi e Giovanna Calvenzi in Cinema senza movi mento, un saggio su Federico Patellani che, succintamente, dice molto sulla temperie culturale di quel periodo e sulla scelta meditata della professione di fotogiornalista da parte di un uomo dotato di molte, quasi troppe, qualità, tra cui avrebbe trionfato la capacità di sintesi. Amore per il diritto, pas sione per la pittura, entusiasmo per il cinema, vennero a un certo punto superati, ma non traditi, dal prevalere della mania per la foto grafia inoculatagli dal padre. Tro vatosi neoproprietario di una Leica con vari obiettivi in Africa Orien tale, aveva organizzato una camera oscura campale in grado di seguire l'avanzata delle truppe ita liane servendo i fotografi dilettanti del I C.d.A. e aveva visto le sue fo tografie non solo pubblicate dai giornali, ma anche pagate. Ma, senza le pressioni di Alberto Mondadori e senza soprattutto la novità della grande impresa costituita dal Tempo, avrebbe probabilmente tardato a capire cosa realmente gli interessasse di più. Ovvero quanto esprime nel saggio «Il giornalista nuova formula» apparso nel febbraio 1943 su Fotografia, la prima rassegna dell'attività fotografica in Italia edita del Gruppo Editoriale Domus di Gianni Mazzocchi: «Un tempo i giornali che andavano per la maggiore si guardavano dal pubblicare fotografie, e tenevano alla nudità delle pagine come a una tradizione dalla quale non ci si può staccare senza cadere nel ridicolo o nel banale. Poi apparve qualche fotografia timida come chi è poco sicuro della propria sorte: era esperimento, la sonda gettata nella profondità della massa dei lettori. La fotografia vinse e i giornali si attrezzarono per i nuovi gusti. Si era, però, ancora allo stadio di esperimento, e la partecipazione del cronista fotografo alla composizione del giornale era pur sempre poca cosa. Per lo più si trattava di foto fornite da agenzie, e nessun argomento poteva considerarsi esaurito con la trattazione fotografica; queste fotografie, inserite in un articolo, avevano sapore illustrativo, ed eccezionalmente di sottolineazione visiva dei fatti ritenuti più importanti. Non esistevano ancora, allora, i mestieri di giornalista fotografo o inviato fotografo. Precorso solamente dai settimanali illustrati sportivi, fu il cinema documentario e d'attualità a imporre definitivamente il suo gusto e il suo sistema; né può stupire il fatto, dato che il cinema ha fatto sentire la sua influenza su ogni settore della vita d'oggi. Se piaceva allo spettatore che un dato avvenimento o un certo argomento venissero illustrati da una pellicola commentata dalla voce dell'annunciatore, perché non si sarebbe potuto fare dei giornali con lo stesso criterio, ricchi di servizi fotografici commentati da didascalie e articoli? In Italia il tentativo venne fatto dal Tempo e la diffusione raggiunta in Europa dal settimanale italiano sta a provare anche per l'Italia la vittoria della formula "giornale settimanale fotografico"...». A esempio, il numero 214 del Tempo dell'8 luglio 1943, ovvero di qualche mese dopo l'uscita del saggio di Federico Patellani in Fotografia, la rassegna edita dall'Editoriale Domus, e di appena qualche giorno prima di quella fatidica riunione del Gran Consiglio del Fascismo, destinata a provocare la caduta del medesimo, sarebbe stato Sotto un 'immagine di Patellani Imita ila «Fuori scena»: edito da Molla (L.34.000), <i cura di ( Ireste, del Buono, raccoglie le sue fotografie su divi e dire del nostro cinema Federico Patullarli Fuori scena Già avvocato e pittore, esordi sul «Tempo» nel 1939 Vinse la scommessa di fondere nell'immagine documento e bellezza pubblicato in 8 lingue straniere, oltre l'italiano, e avrebbe avuto una tiratura di 1.312.220 copie. «La fotografia ha vinto», continuava Federico Patellani. «Per la sua impareggiabile comunicatività ed infine perché infrena ed inquadra tanta fantasia spesso inutile. Sta qui la ragione del successo dei servizi giornalistici a base di fotografie. I giornalisti - si sa - non hanno mai goduto la fama di persone dedite al culto della più vera verità, anzi; e perciò i lettori pensano che abbia ad essere più aderente al vero ciò che è documentato fotograficamente. E i lettori hanno ragione. Se è possibile, infatti, truccare una documentazione fotografica, è sensibilmente più facile e più consueto truccare il valore di un racconto, di ciò che è solamente scritto. Anche la documentazione fotografica è peraltro falsabile: principalmente in due modi. L'uno consiste nel truccare la fotografia, sistema meccanico e meno geniale; l'altro nel pubblicare solo ciò che fa comodo per il testo dell'articolo, in modo d'aumentare con una documentazione fotografica inoppugnabile la tesi oppugnabile soste¬ nuta dallo scritto...». Federico Patellani pretende di discutere tutto il nuovo giornalismo. Elabora obiezioni retoriche, quasi ricorrendo alla sua cultura d'avvocato per difendere anticipatamente il suo pensiero: «Son certo che qualcuno mi opporrà che il nuovo criterio giornalistico tarpa le ali costringendo la fantasia entro limiti definiti. Altri avranno a dirmi che l'arte - nel caso nostro la letteratura rappresentata dal giornalismo - non tollera limitazioni e costrizioni. Risponderò che la fantasia inquadrata vuol dire certezza di stare in tema; che la fotografia, cioè, costringe a presentare i fatti nella maniera più incisiva, più comunicativa, più giornalistica. E anche l'inviato fotografico considera la propria attività non arte, ma mestiere. Se un giornalista sa di fare un mestiere, può e deve accettare la nuova formula; se non è convinto di ciò può rinunciare alla nuova formula attenendosi alla vecchia. Saranno così salve per lui tutte le illusioni. D'altronde, anche al giornalista nuova formula è aperto il campo dell'arte (dico ciò per coloro che non possono fare a meno di questa parola) e consiste nello scriver bene e nel fare buone fotografie. Anche fare belle fotografie è arte. Immagino le obiezioni possibili: che non può assurgere ad arte ciò che non è frutto dell'ingegno e del pensiero dell'uomo, ma risultato chimico di quanto si ottiene da un mezzo meccanico, dall'occhio di vetro anastigmatico dell'apparecchio fotografico, ma l'obiezione non è nuova, non è invincibile, non è intelligente. Se prima dicevo che il lettore ama il giornale a base di fotografie, anzitutto perché gli costa minore fatica l'apprendere e il conoscere e poi perché si sente di fronte a "documenti", se le fotografie appaiono documenti appunto per quel tanto di meccanico e di tecnico che nella stessa parola è insito, è altrettanto vero che le fotografie sono pur sempre individuali interpretazioni di una data manifestazione. Non si parla di riproduzioni e cartoline illustrate, ma della fotografia in genere. Non è forse vero che persino di un oggetto inanimato e senza espressione si possono avere fotografie diversissime, capaci di presentare la stessa cosa in luce diffe¬ rente? Certo, perché anche in fotografia ha buon gioco il l'atto "interpretazione". Ciò che conta nel giornalista nuova formula, è che egli sappia fare fotografie che documentino il lettore; se vuole, se è capace, faccia poi dello belle fotografie...». Nel 1940, Federico Patellani seguì, in borghese, per il Tempo le operazioni militari in Jugoslavia. Ma, ormai, l'Italia sprofondava nella Seconda Guerra Mondiale, così Federico Patellani venne richiamato alle armi, e spedito in Russia, aggregato alle Squadre Fotocinematografiche. E cercò di narrare e documentare ogni aspetto di quell'impresa così complicata e crudele. Era un perfezionista, non stava più a pensare a rischi fisici o a interessi carrieristici. L'importante, anzi per lui l'inevitabile, era fotografare, non solo la vita quotidiana della spedizione militare, ma anche l'incontro o scontro con la vita quotidiana delle località russe occupate. La pace come la guerra. Tutto il possibile e l'impossibile, come ribadisce nel suo proclama: «Non vorrei si credesse che il giornale usi solo fotografie documentarie, direi anzi che ho sempre tentato di forzare la mano a me stesso e ad altri per giustificare la pubblicazione della bella fotografia a preferenza di quella documentaria; purché ciò non tornasse di svantaggio alla chia" rèzza eaLà'comunicatività del servizio. Quando non l'ho vinta, la fotografia bella... è entrata a far parte del mio archivio personale in luogo di essere numerata o catalogata nell'archivio del giornale. La rapidità è la qualità di cui deve essere maggiormente dotato il giornalista fotografo. Rapidità di riflessi nella scelta del soggetto e dell'inquadratura ed infine nel far funzionare l'apparecchio fotografico, in modo da ottenere il miglior sfruttamento del mezzo a disposizione. Frutto, tutto ciò, di gusto e di esperienza. Entro dati limiti sostengo che è necessario giungere a un certo automatismo, sia nel far funzionare l'apparecchio, sia nel gusto dell'inquadratura. Per quanto riguarda, poi, la scelta del soggetto, si formerà pian piano in noi un istinto fotografico. D'altronde, tecnica, inquadrature, soggetti, vengono man mano a selezionarsi... Altro genere di fotografia che non interessa ora me giornalista, ma che non m'interessò nemmeno un tempo, da dilettante, è quella che io chiamo "statica", dato che nulla fa pensare alla vita, ma anzi - inquadratura e chiaroscuri - sembrano ispirati da un quadro. E' un vizio mentale quello di pensare che la fotografia debba fare la concorrenza alla pittura, imitandola.. E' più interessante il fotografare qualcosa di vivente e in moto: J più difficile da ottenere, non solo, ma stimola la rapidità dei riflessi...». Tornato dalla disastrosa spedizione in Russia, Federico Patellani continuò a fotografare il Paese sconvolto dal peggiorare della situazione su tutti i fronti, dal progressivo cedere della pubblica opinione alla rassegnazione e al disordine, dall'incombere sempre più motivato della disfatta totale. La caduta repentina del regime, dopo la riunione del Gran Consiglio del fascismo nella notte tra il 24 e il 25 1943, l'arresto e la pratica scomparsa di Mussolini, la polverizzazione di tutti i capisaldi del regime durato oltre un ventennio, avevano acceso le piazze, in cui il popolo italiano aveva messo in scena il suo antifascismo di fresca data e la sua gioia por l'ipotetica ritrovata libertà. Ma avevano anche imposto una totale insicurezza, il disagio di dover demandare ad altri una soluzione del caos. L'8 settembre 1943, con la rivelazione da par te degli Alleati che gli italiani avevano già concluso per conto loro l'armistizio e con la conseguente reazione tedesca, spaccò l'Italia in due, ma ci furono italiani che non si sentirono tranquilli neppure schierandosi da una parte o l'altra e ripararono all'estero, principalmente in Svizzera. La famiglia Mondadori varcò il confine. E il confine lo varcarono anche molti collaboratori del Tempo, non ritenendosi protetti da una copertina del settimanale che inaspettatamente inneggiava al socialismo. Anche Federico Patellani venne internato in Svizzera, ma la sua professione non gli consentiva di restar troppo lontano dagli eventi. Nel 1945 ricominciò da zero con l'Italia. Federico Patellani è stato un grande fotografo di guerra, ma è stato anche un grande, anzi grandissimo fotografo di pace. Non ci ha narrato solo le campagne dell'Africa Orientale o della Russia Sovietica o di altri fronti, ci ha soprattutto narrato la rinascita della vita e della speranza, nonostante i ruderi della devastazione di Cassino e di tante città italiane, ci ha narrato la storia fragile e quasi incredibile della ricostruzione, e l'impareggiabile favola della rinascita della bellezza carnale e radiosa, dai primi concorsi per miss all'affermarsi avventuroso dell'industria cinematografica: «Se si ottiene una buona fotografia, proviamo la soddisfazione di aver risolto un problema e di aver saputo cogliere "un momento"; poi, poco a poco, noteremo di avere i riflessi sempre più rapidi. Se è vero ciò che io penso, che la rapidità è la chiave della buona fotografia moderna, se è esatta la mia aspirazione di fare fotografie che appaiano viventi, attuali, palpitanti, come lo sono di solito i fotogrammi di un film, mi pare si debba trovare nel cinema l'ispirazione per la fotografia di oggi... Certamente, è difficile il fondere in una sola fotografia i valori documento-bellezza. Sta qui la classe del fotografo...». Oreste del Buono LETTURE IN GIOCO UNA PARTITA A TUTTO CAMPO TRA CALCIO E POLITICA E. settembre, si ricomincia? Dif» pende. Tornati dalle giocose ✓ ospitalità di agosto, quel che vediamo sicuramente ricominciare è la politica, e il calcio, con le sue alleanze e strategie. E' inevitabile che la mano cada, ancor prima che sulle lettere della Posta in gioco (ricomincerà regolarmente il prossimo sabato, sotto la classifica), su un libro che parla di entrambi i campionati. Il più mancino dei tiri di Edmondo Berselli (il Mulino, pp. 144, L. 15.000) è uno dei libri fra i più mancini che sia dato oggi leggere, e mancino non in senso politico (certo no) o calcistico-funzionale: proprio nei senso dei tiri, degli scherzi da prete, della farsa. Come i tiri mancini, è scaltro: e dunque non cerchiamo di essere più furbi di lui, non proviamo a giocarci neppure per scherzo. Dedica molte pagine alla figura di Mariolino Corso, titolare nella squadra. di calcio dell'Inter: e lo fa avendo gloriosamente attraversato le fasi dell'ammirazione ingenua, dell'accanimento tecnico, del disinteresse snobbistico, del pa¬ triottismo 1982, del recupero nostalgico. Il tifo-base, Gianni Brera, Aldo Biscardi, Walter Veltroni sono dati per scontati. Senza presunzioni di scaltrezza, ebbene, diciamolo: questa storia di Mariolino Corso, con le sue punizioni a foglia morta, la sua figura poco atletica, il suo sottile eppure roco filo di voce, i suoi calzettoni alla cacaiola è davvero un'inezia. Se il libro connette Mariolino Corso e compagni a varie fasi del pensiero politico (beh, diciamo della prassi politica) e del carattere antropologico italiano non è per determinismo totalitario o, all'inverso, per gusto dell'accoppiamento poco giudizioso: è per un pacato confronto fra inezie. Allora diciamo che Edmondo Berselli ha messo assieme 140 pagine del tutto spiritose, del tutto sorprendenti. Ancor prima che un argomento, si è dato una regola del gioco e un principio stilistico. La regola del gioco è questa: citare rigorosamente a memoria (deve valere anche il rovescio: a memoria, ma rigorosamente), senza consultare testi di alcun genere. Il principio stilistico è la digressione argomentativa. Gigi Riva spiega Zenone, e ne è spiegato. Le squadre di media classifica de¬ vono essere «unite», come il pei; gli squadroni zeppi di fuoriclasse sono inevitabilmente «unitari», come il sindacato. Pietro Nenni si trova stretto fra Vittorio Pozzo e Heriberto Herrera, e c'è un punto in cui l'autore ci invita: «Pensate a Gorgia, a Protagora, a Scopigno, ad Aldo Moro». Per esistere, un calciatore o un pensatore, ogni esemplare del nostro Olimpo domestico (anche nel senso di ciabattone) deve connettersi con almeno un altro elemento che apparentemente non c'entra nulla. Le regole della citazione e della digressione avendo entrambe a che vedere con il funzionamento di una memoria che non è più individuale ma non è ancora veramente collettiva, si spiegano l'una con l'altra: e questo basta all'autore. E al lettore? Il lettore si sente parte della questione. Con le sue storie di sport e di vita nazionale incorniciate da un ragionamento randagio, non si sa che cosa Berselli ritragga, ma certo il ritratto è realistico. Che la zona sia di sinistra e la difesa a uomo di destra, è uno scherzo dichiarato. Che il concetto di «storia sincronica», con gli accostamenti ine¬ diti e gli affondo irresistibili, sia un gioco di ironia è altrettanto evidente. Alla fine però un modo di pensare (e di votare, e di giocare) salta fuori e pare proprio un modo assai italiano. In questa tranche di vita all'italiana, noi siamo l'ultimo, cruciale anello di una catena, ovvero catenaccio: il lettore è nella posizione del portiere. Di portieri Berselli parla, ma poco: le loro magliette ancora nere disegnano uno spazio inconoscibile, il black hole in cui il pallone viene inghiottito e annullato se la sua orbita non è stata calcolata con maliziosa e quasi negligente esattezza. Il buio indossato dai lettori e dal portiere è il buio della quarta parete, dalla cui ombra possono provenire a chi recita solo imprevedibili cenni di dissenso (parate) o di consenso (gol). Un buon attaccante «vede lo specchio delia porta», e si dice così per dire che magari è voltato e non lo vede ma sa che c'è, e dov'è; analogamente un attore «sente» la plateale riconosce il silenzio dell'attenzione strenua da quello desertico dell'indifferenza annoiata. Il libro di Berselli «vede» il lettore: prevede e contiene il proprio risvolto di copertina, offre in un capitolo la burlesca consulenza di un esperto (Gianni Rivera), prefigura comicamente le recensioni e l'eventuale dibattito dei critici. Ma il lettore reale è invece inchiodato alla passività: come il portiere che, dietro la barriera, attende ma non sa prevedere l'ironica traiettoria calibrata dal sinistro di Mariolino Corso. Non per nulla, per i portieri e per i lettori la parola è la stessa: ricezione. L'azione è di quell'altro: del portiere e del lettore è la reazione, che può essere miracolosa, inutile, talvolta impedita dalla fulmineità dell'attacco. Di fronte a Mariolino Corso il portiere era il più delle volte goffo, e di fronte a questo libro il lettore ride, si interroga, vuole e non vuole arrivare alla fine ma poi ia sua goffaggine è necessaria a sancire la classe dell'avversario. La architettura casualmente perfetta di questo libro, la sua intelligenza frivolamente totale, il suo umorismo nichilisticamente costruttivo lasciano senza parole; l'effetto impresso alla punizione sarà tale da insaccarla senza darci il tempo di accennare un tuffo. Chiamatela inezia. Stefano Bartezzaghi