Il deserto in una stanza
«Il Colosseo, straordinario per la sua forma e per la vegetazione che lo avvolge» Heizer alla Fondazione Prada Il deserto in una stanza AMILANO LLA Fondazione Prada in via Spartaco 8, che l'anno scorso aveva già I ospitato David Smith e Amish Kapoor, prima personale italiana del cinquantaduenne californiano Michael Heizer. Nipote da parte di entrambi i genitori di tecnici minerari, figlio di uno studioso di archeologia e antropologia precolombiane, Heizer è da quasi trent'anni uno dei massimi esponenti statunitensi della «land art», assieme a Smithson, de Maria, Oppenheim. Le sue prime «scritture» e tracciati nel deserto del Nevada risalgono al 1968: due anni dopo, Germano Celant lo presentava alla mostra «Conceptual Art - Arte Povera Land Art» alla Galleria d'Arte Moderna di Torino; oggi, in occasione di questa mostra, gli dedica una colossale monografia, monumento innanzitutto fotografico. Programmaticamente nascenti da un grandioso ma effimero gesto, atto di connubio fra forma artistica e natura incontaminata, le opere-azioni di «land art» non possono che affidarsi alla memoria fotografica. «Di questo lavoro» (la serie Nine Nevada Depressions del 1968) «non esiste una documentazione anche approssimativa, le fotografie che vediamo vengono scattate a 365 giorni di distanza l'una dall'altra. L'anno prossimo scatteremo la terza che sarà probabilmente anche l'ultima. Probabilmente rimarrà soltanto il paesaggio». La monografia documenta con tre splendide foto che fra le Nove Depressioni vi era an- Milano. L'install zione di Heizer che Rift I {Crepatura I) una trincea a zig zag scavata nella terra arida del deserto. E qui scatta la magica contraddizione della mostra milanese. La prima grande sala a pilastri, che la Fondazione Prada ha ricavato da un ex laboratorio industriale, ospita Negative Li no. il «negativo» della stessa linea a zig zag di quasi trent'anni fa, ottenuto incassando una trincea di lastre d'acciaio in un manto di polistirolo e cemento sovrapposto al pavimento. Un «ribaltone» integrale: dalla natura allo standard industriale, dalla «land art» alla «minimal», in cui talora si è ottimamente cimentato Heizer (Glie nette del 1977 per il Metropolitan Museum di New York! Ma il risultato più stupefacente, entrando nel salone, emozionale e psicologico prima che ottico, è l'immediata evocazione dei fulmini di un «domestico» Giove che zigzagano sui parquet di tanti quadri di De Chirico e Savinio: una surreale vendetta europea, dal mito pionieristico dello spazio senza limiti al mondo magico nei limiti di una stanza. Il mito si riprende la sua rivincita nelle due Stele, titanici massi di granito californiano sul cui taglio frontale l'artista compie una doppia operazione scultorea: sull'uno incide meccanicamente liberi segni di gestualità informale, quasi una memoria di «action painting»; sull'altro ricava in negativo, attraverso una michelangiolesca «gradinatura», misteriose topografie evocanti il Perù precolombiano. Marco Rosei Milano. L'installazione di Heizer
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