La gente in processione sul ponte della morte di Pierangelo SapegnoEnrico Mentana

Alessandria, è un camionista: «Erano in tre, tiravano pietre su un cavalcavia vicino a quello della tragedia» REPORTAGE La genie in processione sul ponte della morte SUL LUOGO ALESSANDRIA DAL NOSTRO INVIATO Un ponte univa la gente, dappertutto, anche da noi. Adesso c'è un bambino qui sopra che gioca sul parapetto, mentre papà e mamma cercano di capire come ha fatto quel sasso a saltare la rete che è alta e fitta e poi colpire la Mercedes bianca di Lorenzo Bossini e fare la settima vittima di questa strage insensata. Nessuno riesce a guardare oltre, lontano da quel parapetto, lontano da questo ponte, alle fattorie piantate sui campi curati, quasi stampate come su copertine di riviste, alle stradine che come un collo ritorto terminano di colpo con una brusca curva su abbandonati binari di ferrovia, ai colori di questa terra, ai filari di gelsi che delimitano le biolche e che segnano i sentieri, e poi agli orizzonti più scuri, verso la città, verso i capannoni delle industrie. E' un pezzo d'Italia fatto di silenzio e di lavoro. Solo che oggi, da questo balcone sulla piana di Tortona, l'Italia sembra diventata uno strano paese, un posto di vuoto, dove anche un ponte può condurre all'abisso, e dividere la vita anziché unire la gente. E su questo cavalcavia della Cerca, numero 84, sopra l'autostrada Torino-Piacenza, la gente che ci viene da stamattina, ci passa come in una processione sfinita, di tristi paure, di segni dolenti. Quello con la macchina fotografica, quello che non osa fermarsi, quello che va alla Messa di suffragio per la povera Maria Letizia, lì sotto, al santuario, quello che porta il bambino e quelli, tanti, che suonano il clacson, non si capisce se per scherzo o per isteria, correndo sull'autostrada. Ora c'è pure la Uno dei carabinieri, e l'appuntato dice che li hanno chiamati perché avevano segnalato dei curiosi qui sopra. «Pensavamo a dei giornalisti», dice, «perché parlavano di macchine fotografiche». Guarda in basso, l'appuntato. Le macchine passano sfrecciami, palle di luce che schizzano davanti a loro. Ma anche all'estero ammazzano così la gente dai ponti? Non so, dice il carabiniere, «all'estero non credo». E' una strage nostra, tutta terribilmente nostra, 7 morti in 10 anni. Da posti come questo. Il ponte è come gli altri, un ponte d'Italia, su un'autostrada d'Italia, che corre fra Torino e Piacenza verso un'altra autostrada, sotto mille altri ponti. La gente oggi ci passa in processione, molto lentamente, quasi fermandosi quand'è in cima, dove c'è la Uno blu dei carabinieri. Appena riscendi, sulla sinistra c'è il santuario di Cavallosa. Il cortile è riempito dalle macchine. C'è una Messa in suffagio della vittima, e don Giovanni del Fabbro fa il sermone e dice che «questi ragazzi sono un po' sbandati, purtroppo non li possiamo neanche condannare. Vengono da famiglie senza ideali, e la colpa è loro». Cinquanta fedeli in silenzio. Non c'è un giovane. Anche qui dentro fa un freddo gelido. Don Giovanni parla sconsolato, dice che «non ci sono commenti da fare. Purtroppo così si vive, così si muore. Non ci sono ideali nella famiglia, non possiamo meravigliarci di tutto quel che succede». E allora non ci resta che pregare, «per la povera vittima, per le famiglie della nostra Italia, e preghiamo perché certamente fa pena tutto questo. Ma che cosa possiamo dire?». Già, che cosa possiamo dire. Anche il custode del santuario, Gaetano Bolelli, ripete che non ha niente da dire, che «quella sera non ho visto né sentito niente. Ero appena andato a letto». Certo, può anche sembrare strano. Il ponte è 20 metri più in là. Tirava un vento di ghiaccio. Una coppia di amanti ha raccontato di aver visto «due fari che andavano via», e nient'altro, quella sera. E non hanno nemmeno sentito niente. Erano le 20 e 03, hanno detto. Eppure, il ponte è lì accanto, il ponte che portava al santuario, che univa la gente alla loro fede. Bisogna venire dalla stradina della Cerca per salire quassù, dove si sono divertiti gli ultimi assassini di questa strage, e quelli che ci vengono adesso forse vogliono vedere solo la paura dall'altra parte, come si sta a giocare con la morte di ignoti viaggiatori. Sotto, guardi le macchine che rallentano, che diventano come animali che puntano un pericolo, e sembrano accovacciarsi su se stesse, curvare, scattare, poi fuggire, come lepri, o belve braccate, quando passano sotto a quel ponte, o a un ponte qualsiasi d'Italia, in un'autostrada d'Italia. Sono schegge bianche o colorate, sagome riempite di vita. Dentro, il corpo del viaggiatore si sta adattando al guscio di cecità che è l'affrontare una minaccia. I cecchini e le loro vittime. Un camionista ieri ha raccontato che 15 giorni fa aveva visto un gruppo di giovani che tiravano piccole pietre dal ponte e che l'aveva denunciato. «Facevano le prove», ha detto. Tutto questo non ha un senso se non quello del vuoto, e in questo ha davvero ragione don Giovanni, è il vuoto che abbiamo costruito tutti noi in questi anni di disperazione esistenziale. E' lo stesso vuoto che c'è adesso su questo ponte, percorso dai cronisti e dai curiosi, avanti e indietro. Andando per la strada della Cerca, se ne incontra un'altra in questa pianura sconfinata, che va verso un Mercatone Zeta. Laggiù dopo l'incrocio c'è un benzinaio Agip, un biglietto appiccicato sulla pompa: «Cercasi chitarrista e tastierista. Telefonare e chiedere di Giorgio». Un'Alfa grigia si immette sulla statale, km 2 dall'autostrada, segnala il cartello verde. Il benzinaio si scalda le mani battendole sulla giubba: «La cosa che mi fa paura è sapere che è una persona che conosco, sapere che ho avuto a che fare con lui tutti i giorni e che magari è un assassino». Eppure, la sua non è la stessa paura che si avverte attorno a questo ponte sospeso su un abisso. La moglie di Bolelli ha raccontato che 15 sere fa un signore si è presentato a casa sua con il volto sanguinante: «Mi hanno tirato i sassi dal ponte», ha raccontato. Però, nessuno ha fatto la denuncia. «Io gliel'ho detto: perché non va dai carabinieri? Perché non voglio grane, mi ha risposto». Alla fine, è tutto questo vuoto che spaventa, questo orrore accettato come normalità. Eccolo, il ponte numero 84. Continuano a passarci lentamente, guardando in basso gli altri che ci corrono sotto. Lo scenario è bello, ma a che serve. L'inverno ha sollevato la coltro di verde della pianura, il cielo è sgombro della lattiglia estiva o della nebbia dei freddi che v'è sempre sospesa. Adesso c'è solo una palla di sole verso il tramonto e lascerà tinte d'ambra all'orizzonte. Andando via, restano larghi e nobili cascinali piantati sui campi e qualche alta casa dalla facciata stretta, in timpani e abbaini come il petto di una poiana. Alla fine della strada c'è la torre Garofoli, «sede del comando di Napoleone nella battaglia di Marengo». Solo quel ponte sembra senza storia, senza vita, senz'altro che la sua tragedia. Là, alla torre, sul muro di pietra antico hanno scritto col gesso «W Coppi». Qui sotto, le macchine che passano continuano a suonare. Ma adesso, nel buio, sembrano urla. Pierangelo Sapegno Rabbia e dolore aifunerali Maria Letizia il giorno delle nozze A fianco i funerali e sotto il cavalcavia della morte Il direttore del Tg5 Enrico Mentana

Persone citate: Bolelli, Garofoli, Lorenzo Bossini, Maria Letizia