II tradimento dei senza memoria di Igor Man

II tradimento dei senza memoria DALLA PRIMA PAGINA II tradimento dei senza memoria Una ferita alla città vibrata dall'ignoranza PROMA ERCHE' ragazzi metropolitani gettano nei rifiuti nomi di romani antichi (Sonnino, Fiorentini, ecc.) incisi nel marmo della memoria? Perché hanno il vuoto dentro, dice il vecchio cronista col taccuino diventato poltiglia, gli appunti tutta una macchia. No, dentro hanno il male, replica, con rabbia asciutta, un consigliere della Comunità ebraica. Ma il Male, come scriveva Pareyson, è un mistero, una drammatica sfida senza fine per il filosofo, per il sacerdote. Il Male è forse il diavolo che ha due forti alleati: l'ignoranza, la solitudine. Da sempre. E infatti, che ne sanno della scritta derisoria sul cancello di Auschwitz, i naziskin che la scrivono per schernire gli ebrei due volte indifesi, perché morti, di Prima Porta? Che ne sanno degli ebrei romani, della loro storia? Figli di brava gente perloppiù, quando li arrestano piangono, i naziskin, non riescono a «spiegare» le loro incursioni, e se l'interrogano sul ciarpame ideologico che riempie i loro «covi», spesso non sanno rispondere giacché non sanno. Un vicecommissario di polizia ha scoperto, interrogando un capetto dei naziskin, che quel ragazzo aveva letto Nietzsche e Evola «più volte», ma confessava di non aver capito «quello che veramente volevano dire». Testuale. Al pari degli sciagurati che gettano massi dal cavalcavia ammazzando innocenti colpevoli solo di possedere «qualcosa» che loro, gli sciagurati dèi cavalcavia, oscuramente invidiano, i naziskin praticano quello che i sociologi definiscono «l'eroismo dei codardi», sicché cercano nell'Altro il capro espiatorio del loro malessere urbano. Verosimilmente sono vittime d'una duplice incapacità: quella di vivere con gli altri, quella di vivere soli. Di più: i naziskin si vogliono romani de Roma, rivendicando una sorta di diritto a castigare, a mortificare i «non romani» vale a dire gli immigrati, gli ebrei. E non sanno, gli ignoranti, che proprio gli ebrei sono i romani veraci. (Insieme con gli abitanti della Città del Vaticano). Ancora: quella romana è la comunità ebraica più antica del mondo, un «insediamento» che non ha mai conosciuto interruzione di sorta e per tanto più continuo della stessa Gerusalemme. Il cuore della famiglia ebrea è in Trastevere, a Ripa Grande: gli ebrei vi arrivarono prima della nascita di Gesù. Là dove sorge la Comunità di Sant'Egidio resistono vecchi che parlano dialetti siriaci e condiscono i loro affascinanti discorsi con espressioni aramai che, come se ne sentono a Ma- luld, non lontano da Damasco. Certamente la vita degli ebrei di Roma non è mai stata facile, han subito discriminazioni pressocché da sempre ma nessuno, nemmeno la società teocratica del «Papa-Re», pensò di eliminarli. L'unità d'Italia vide esaltarsi l'intelighenzia ebraica, la Prima Guerra Mondiale, quella di Cadorna e Diaz, conobbe il concorso consapevole degli ebrei. Romani e non. Il feeling, nato nelle trincee, tra gli ebrei e lo Stato italiano, si rompe, brutalmente, nel 1938. Le leggi razziali furono avvertite soprattutto come una enor- me ingiustizia. La discriminazione sociale, terribile, voluta dal fascismo non venne tuttavia raccolta, a Roma dalla popolazione ma solo dalla burocrazia, dai fascisti facinorosi. Sennonché le leggi razziali prepararono l'olocausto degli ebrei di Roma. I tedeschi li cercavano e, spesso, li trovavano a colpo sicuro proprio grazie alle liste rinvenute negli uffici «addetti agli ebrei» del ministero di Grazia e Giustizia. Chi potè farlo lasciò Roma suol finire del 1939 ma i più rimasero, «i piccoli, cari giudii senza macchia e senza paura». Allorché, dopo l'8 settembre, i tedeschi occuparono Roma non furono pochi gli ebrei che cercarono rifugio presso amici cristiani o in «santuari» quali la casa delle Suore di Sion al Gianicolo o la chiesa di San Bartolomeo all'Isola. Ma i più rimasero nel loro ghetto. In quel tempo funesto, quando un giornalista sgrammaticato, ma «di fiducia», scandiva a Radio Tevere: «Gli ebrei bisogna bruciarli, uno per uno», noi giovani partigiani fummo comandati, in un certo momento, di prendere in consegna ebrei decisi a tutto, per affidarli ai compagni di Soz¬ ze che li avrebbero, infine, aiutati a passare le linee Ma la maggior parte di ebrei romani rimase, anche perché avevano pagato una massiccia «cauzione» in oro e brillanti e si illudevano che le SS non li avrebbero perseguitati. La Sinagoga, allora, era chiusa ma proprio attaccato a San Bartolomeo all'Isola c'era il settore israelitico dell'ospedale Fate-bene-fratelli con ima piccola sinagoga. Di essa i tedeschi ignoravano l'esistenza e li gli ebrei romani celebrarono l'ultimo sabbath prima della razzìa del 16 di ottobre del 1943. Si raccolsero in preghiera il 15 di ottobre del i943 e tornarono, quindi, nelle loro case: fra le 4 e le 5 del mattino seguente le SS li presero e li mandarono a morire. Se ne salvarono 15 degli oltre mille deportati in Germania, nei campi segnati dalla scritta dettata da Himmler: Ar beit mach Frei, il lavoro rende liberi. Sopravvissero allo sterminio quelli che s'erano «dati» in tempo sicché dopo la Liberazione, e ancora oggi, la comunità ebraica di Roma è la più numerosa d'Italia e, come s'è detto, la più antica del mondo. Adesso, di ritorno da Prima Porta, scriviamo questo articolo nel buio della sera. Nelle pause ascoltiamo il silenzio del freddo fuori della finestra E il nostro pensiero corre al tempo in cui avevamo coraggiosamente paura, quando aiutavamo gli ebrei a salvarsi. Ricordo un vecchio signore tunisino che mi ripeteva ossessivamente: «Perché?»; ricordo quand'ero in collegio il mio amico David che un brutto giorno venne «allontanato» e salutandomi mi disse: «E' perche sono ebreo». Lo disse con tranquilla fierezza. Ricordo i nostri cari amici Grinstein cacciati da Catania come malfattori nel 1938, e rivedo i parenti degli ebrei massacrati alle Ardeatine chiedersi sgomenti «perché?», perché mai avessero «prosciolto» Priebke Oggi, davanti allo scempio di Prima Porta, avranno il diritto di domandarsi «perché» una volta ancora E noi. ancora una volta, non avremo la risposta giusta da dargli. Sergio Quinzio scrisse che «nel Talmud palestinese si legge: "Se una persona ti domanda dov'è il tuo Dio?, rispondigli: nella grande Roma". Perche Roma, in quanto sede del potere imperiale che aveva distrutto il Tempio, portava l'impronta sinistra dell'epifania del Male». Ecco, forse potremmo rispondere al «perché» degli ebrei di Roma, di nuovo offesi, che la presenza di Dio è più forte proprio là dove si manifestano le contraddizioni più tragiche. In forza di questo «disperato paradosso» (sempre per citare Quinzio), Dio è oggi presente a Roma, nel cimitero di Prima Porta, là dove ignoti (ancora per poco?) mascalzoni brutali hanno profanato la Stella di David e mortificato la pietà. Igor Man