India la paura del progresso

REPORTAGE Il governo sollecita la crescita economica e la scoraggia per timore dei contraccolpi sociali India, la paura del progresso Tra ultraliberismo e Stato feudale REPORTAGE LA PIÙ' ©RANDE DEMOCRAZIA DEL MONDO FNEW DELHI RA le storie di corruzione che i giornali indiani raccontano ogni giorno ai loro lettori questa è esemplare. La faccenda comincia prima delle ultime elezioni, nel 1995, quando il governo era presieduto da P. V. Narasimha Rao, leader del partito del Congresso dopo l'assassinio di Rajiv Gandhi nel maggio del 1991. Il governo Rao si è coraggiosamente lanciato in una politica neoliberale e fa del suo meglio per promuovere la crescita economica del Paese. Ma per raggiungere il punto critico del decollo occorre modernizzare ed estendere la rete delle infrastrutture. In questo spirito il governo stanzia 25 miliardi di dollari per le telecomunicazioni (telefonia mobile, servizi di base) e il ministro del settore, Sukh Ram, mette in moto la procedura delle gare per l'aggiudicazione dei contratti. I partiti d'opposizione sostengono che Ram sta incassando tangenti e cercano di provare che le gare sono truccate. Ma la Corte Suprema constata che le procedure sono regolari. Vengono le elezioni, cade il governo Rao, si costituisce un ministero di coalizione composto da tredici partiti sotto la presidenza di H.D. Deve Gowda e le indagini, nel frattempo, continuano. Nell'agosto di quest'anno, mentre Ram è all'estero, la polizia gli piomba in casa e scopre denaro dappertutto, in valigie, borse di plastica, lenzuola. L'Economist scrive che ci volle un giorno e mezzo per contare tutti i biglietti di banca nascosti nella casa del vecchio ministro: più di trentasei milioni di rupie, pari, grosso modo, a un milione di dollari. Se teniamo conto della differenza fra le economie dell'India e del Giappone, il tesoro di Sukh Ram è proporzionalmente più grosso di quello che la polizia giapponese trovò qualche anno fa nella casa del vecchio padrino del partito liberal-democratico. Parlo di corruzione con Manmohan Singh, autore del piano di risanamento che ha lanciato il Paese sulla strada dello sviluppo, e collega di Ram nel governo presieduto da Rao. Risponde con evidente disagio che le ragioni sono due. In primo luogo il potere corrompe: intende dire, suppongo, che corrompe soprattutto quando un partito, come in India il Congresso, controlla per troppo tempo le leve del governo e dell'amministrazione. In secondo luogo il «costo» della politica indiana è aumentato vertiginosamente. L'India è divisa in enormi collegi elettorali che comprendono letteralmente milioni di elettori, e lo Stato non finanzia né i partiti né le campagne elettorali. L'uomo politico, quindi, «si arrangia». E' probabile che accanto alle due ragioni di Manine bua Singh ve ne sia una terza, rappresentata dal numero di forche caudine con cui il dirigismo economico del governo indiano ha lungamente intralciato le attività dei suoi concittadini. Quanto più numerosi sono i regolamenti tanto maggiori sono le occasioni in cui un ministro o un burocrate può vendere cara la sua benevolenza. Paradossalmente la corruzione indiana è anche l'inevitabile ricaduta di una crescita economica che il governo sollecita e al tempo stesso scoraggia, per timore eli contraccolpi sociali, lasciando in vita le vecchie bardature del regime pianificato e dirigista. Il fenomeno emerge violentemente alla superficie perché i due aspetti della realtà indiana una economia promettente e dinamica, uno Stato «impiccione» e super-regolamentato - sono diventati incompatibili. L'aumento della corruzione e della sensibilità popolare per il fenomeno ha conferito alla magistratura un ruolo nazionale. Come in Italia i giudici sono diventati i purificatori della politica, gli «angeU vendicatori» della Lcorrucorro società indiana. Mentre il potere esecutivo e legislativo si appannava il potere giudiziario diveniva sempre più lucente e smagliante. E ì giudici, anziché limitarsi a perseguire casi di criminalità individuale, hanno progressivamente esteso la loro «giurisdizione» sino a promuovere una sorta di crociata contro i grandi mah dell'India. Un uomo politico, sottosegretario del governo Rao e deputato fino all'ultima legislatura, mi. descrive alcune recenti sentenze della Cor- te Suprema. Una sezione della Corte ha ingiunto al governo di trasferire altrove, per ragioni ecologiche, le 5000 fabbriche della zona di Delhi e di pagare ai dipendenti, in attesa del nuovo lavoro, un congruo indennizzo. La stessa sezione ha proibito l'uso dei parchi pubblici per le feste private. Un'altra ha soppresso l'uso dei tricicli a motore. Un'altra ancora ha vietato il taglio degli alberi in tutto il Paese. Ciascuna di queste sentenze è per¬ fettamente giustificata. L'inquinamento rende Delhi una delle più insalubri capitali del mondo. Non è forse giusto che il governo metta fine a questa situazione? 1 matrimoni, in India, si festeggiano nei giardini pubblici con orchestre, cucine all'aperto e fuochi d'artifìcio. Non è giusto impedire che beni pubblici vengano sporcati e imbruttiti? Il taglio degli alberi peggiora il clima e priva il Paese cu una grande ricchezza ambientale. Non è giusto proibirlo? Peccato che gli operai delle fabbriche di Delhi, i conducenti dei tricicli, molti sposi novelli e i boscaioli appartengano generalmente alle classi più umili del Paese. Di fronte a questi ukaz della magistratura il governo si dibatte come un'anguilla e non sa più a che santo votarsi. Ha chiuso gli occhi sui peccati ideologici dei suoi concittadini anche perché la negligenza, nei Paesi in via di sviluppo, è spesse un modo per impedire che i poveri muoiano di fame. L'ambientalismo, generalmente, è la virtù dei popoli ricchi. Ma l'India è uno Stato di diritto e le sentenze dei giudici vanno rispettate. Rassegnato, il mio interlocutore mi spiega che gli alberi verranno tagliati egualmente e che i poliziotti, per voltare le spalle, si lasceranno corrompere. Avremo, conclude malinconicamente, meno alberi e più tangenti. Questo attivismo giudiziario, censorio e moraleggiante, è un'altra spia delle contraddizioni che caratterizzano l'India in questa fase di transizione. Con le loro nobili sentenze i giudici dimostrano una volta di più che la distanza tra la cultura dei suoi ceti più elevati e le reali condì zioni del Paese, tra la generosità delle intenzioni e il volto impietoso della realtà, è spaventosamente grande. Sul dritto e sul verso della medaglia indiana so- i no inscritte due storie completamente diverse. Nella prima si vedono scienziati, industriali, imprenditori, laboratori informatici e centri spaziali, nella seconda, povertà e ignoranza. Fra l'aristocrazia e il sottoproletariato dell'Indio, corrono alcuni anni luce. Il progresso accorcerà la distanza; ma non prima di averla, all'inizio, esasperata e aggravata. Gli osservatori internazionali sanno che la crescita dell'economia, in una prima fase, può crea¬ , è n e a i à aul o- magistrati o di la società o i a, i ¬ re grande malessere sociale e nuove forme di povertà. L'India non è il solo Paese dell'Asia afflitto da questo divario. Lo stesso fenomeno appare, con analoghe caratteristiche, in Cina, in Indonesia e in Paesi minori. Ma l'India presenta due carati teri originali. E' uno dei Paesi più popolati del mondo ed è una de¬ popolati mocrazia. Torniamo cosi allo slogan - «Benvenuti in India, la più grande democrazia del mondo» - che accoglie i viaggiatori alla frontiera con il Pakistan Gli indiani hanno buone ragioni per compiacersene. Ma non possono dimenticare che le economie asiatiche sono cresciute impetuosamente là dove hanno trovato regimi che potevano controllare con un pugno di ferro le agitazioni sociali provocate dalla crescita economica. E' il caso della Cina dove il regime interviene duramente per reprimere i moti di Tienanmen o continua a punire con la pena capitale i reati contro il patrimonio. E' il caso, su diversa scala, di tutti i Paesi asiatici in cui la cultura confuciana e illiberale delle classi dirigenti ha tenuto le briglie sul collo della società al momento del decollo. E' lecito chiedersi se per uscire dalla palude del sottosviluppo i regimi autoritari, in Asia, non siano i migliori. E' lecito chiedersi se non esista una necessaria correlazione, nelle particolari condizioni del continente asiatico, fra regimi forti ed economie dinamiche. Nel 1995 la Cina ha attratto investimenti stranieri, netti, per 37 miliardi di dollari; l'India, due. Dovremo concluderne che nei momenti di grande crescita una dittatura funziona meglio di una democrazia? A queste domande gli indiani rispondono no. Vogliono dimostrare a se stessi e al mondo che la democrazia resta sempre, anche nelle fasi di sviluppo economico accelerato, il migliore dei sistemi possibili. Sanno che questa scommessa impone una forte attenzione per le ripercussioni sociali e una maggiore lentezza Ma sembrano decisi a vincerla. Hanno molti handicap: un go verno composto da tredici partiti, il terrorismo, la corruzione e l'attivismo di magistrati che credono di pronunciare sentenze in Inghilterra anziché in India. Ma hanno intelligenza, orgoglio e la voglia di arricchirsi. Potrebbero anche farcela. Sergio Romano (2 - Fine) L'ex ministro Singh: c'è corruzione perché il potere corrompe e la politica costa Nel caos dei partiti, i magistrati hanno assunto il ruolo di angeli vendicatori della società I giudici hanno intrapreso contro i mali del Paese una crociata spesso utopistica Un'immagine della Borsa di Calcutta durante le contrattazioni. A destra una via di New Delhi

Persone citate: Manmohan Singh, Rajiv Gandhi, Sergio Romano, Singh