La Cina delle occasioni perdute

la Cina delle occasioni perdute Da qui al 2030 si sta compiendo una rivoluzione industriale che all'Occidente costò 140 anni la Cina delle occasioni perdute // tricolore al margine del grande business INCHIESTA L'ITALIA EILM&DSLL® ASIATICO PECHINO DAL NOSTRO INVIATO All'una di notte del 7 dicembre 1996, dopo sedici ore di indicibili traversie, sotto gli occhi ammirati ma esausti di trenta cinesi partecipanti all'apposito corso di formazione, ha visto finalmente la luce la prima pizza italiana mai sfornata a Pechino. Emozionato come per il varo di una nave, l'istruttore Gianmarco Taddei ha subito chiamato il locale di famiglia a Rimini: «Papà, ce l'abbiamo fatta, la pizza romagnola è internazionale». Pronta a sconfiggere sul campo la concorrente «Pizza-HuU grazie a un impareggiabile ribasso di prezzo: «Contro 150 yuan, circa dodicimila lire, necessari alle élites per frequentare il fast-food americano, noi sfoderiamo un'ottima pizza al taglio da consumare in piedi per 6 yuan, millecinquecento lire, cioè la pizza davvero per tutti i cinesi», esulta lo stratega di Pizzltaly, un progetto di decine di locali da aprire nel giro di pochi mesi. Lui si chiama Massimo Conti, qualcuno lo ricorderà come ex sindaco socialista di Rimini, sette avvisi di garanzia però niente di grave, compagno di corrente di Gianni De Michelis fin dall'inizio dell'era craxiana. Ma nel frattempo la Cina gli ha cambiato la vita. Racconta del lievito fornito da una joint-venture australiano-cinese, della mozzarella prodotta nella campagna di Pechino da una signora italiana cui andò male il progetto di una trattorìa, ma soprattutto racconta di un mercato del lavoro in continuo fermento. Ha selezionato i 30 aspiranti pizzaioli tra i 90 che hanno risposto all'annuncio sul giornale. «Gli ho offerto 600 yuan al mese, centocinquantamila lire, contro i 450 yuan che si guadagnano in un albergo, dopo che invano avevo cercato di galvanizzarli con la prospettiva di diventare dei capi-locale, quasi degli imprenditori in proprio. Non gliene importava niente. Questo per loro è il momento magico dei soldi che si possono finalmente guadagnare, e allora preferiscono incassare qualche yuan in più subito che intraprendere una carriera promettente. Anzi, il problema è l'infedeltà: appena ricevono un'offerta migliore ti mollano». Questo mercato del lavoro privato, che si alimenta del miraggio di un arricchimento possibile per i più fortunati, provoca una massiccia immigrazione clandestina nelle città, tollerata perché necessaria soprattutto nel settore edilizio dove tutto va costruito in fretta, senza troppe regole, dormendo in cantiere. Sul marciapiede davanti alla stazione centrale si radunano i nuovi venuti dalle campagne e ciascuno si appiccica sul petto un bigliettino con scritto il suo mestiere: manovale, carpentiere, cuoco. La frenetica mobilita di questa manodopera per nulla garantita nell'«economia socialista di libero mercato», abolisce ogni senso di lealtà verso il datore di lavoro ma determina com'è ovvio anche numerose rovine: fuori dagli albergoni di Pechino, ma anche sul famoso lungofiume Bund di Shanghai sono comparsi, più sporchi e molesti che mai, i primi mendicanti bambini della Repubblica Popolare. Se l'avventura pechinese dell'ex sindaco divenuto manager della pizza può apparire solo un infinitesimale dettaglio di colore, nell'immensità della rinata economia del dragone, più utile forse sarà ascoltare lo sfogo di Francesco Sisci, un giornalista italiano oggi caporedattore del quotidiano continentale «Asia Times», sposato con una pechinese e ormai radicato in questo nuovo Paese. Sisci parteciperà alla seconda cena con il mediatore d'affari Gianni De Michelis e la sua ultradinamica metà Stefania l'ucci, dopo quella all'esclusivo China Club offerta dal Guggenheim Miiseum. Il luogo vale di nuovo una descrizione. Jinjiang Asia Hotel dove nella penombra di una sala allagata galleggiano quattro giunche perfettamente apparecchiate, mentre le pareti son fatte di acquari luminosi in cui nuotano aragoste, tartarughe, anguille e altri pesci che potrai ordinare indicandoli alle cameriere che s'inginocchiano sul ponticello. Sentiamo dunque la sintesi di Sisci sulla comprensione italiana del fenomeno cinese: «Quando la Cina implodeva sotto i colpi della rivoluzione culturale maoista, tutti i nostri grandi giornali mantenevano qui ì loro uffici di corrispondenza per saziare una curiosità ideologica tutta a uso politico interno. Nello stesso periodo, per intenderci, c'erano qui un solo inglese e pochi tedeschi. Ora che la Cina è di- L'ex minimerc venuta centrale negli equilibri del mondo, di giornalisti italiani siamo rimasti solo io e il corrispondente dell'Ansa. Neanche più la Rai, mentre gli altri Paesi europei ne inviano a decine e in totale gli accreditati sono più di mille». Del resto il discorso non cambia riguardo alle strutture diplomatiche: l'Italia che ha 18 consolati nella sola Svizzera, in Cina dispone di 6 funzionari a Pechino più uno a Shanghai. La lista delle occasioni perdute, una specialità di qualunque italiano s'incontri nella capitale cinese, rischia di essere fuorviarne: d'accordo, tra le 30 maggiori joint-venture straniere non ce n'è una tricolore; benché funzioni l'Iveco di Nanchino siamo dietro ai tedeschi, ai giapponesi e agli americani in campo automobilistico; solo l'Impresilo può vantarsi di star dentro ai giganteschi investimenti nelle infrastrutture; i cinesi ci conoscono solo per il calcio e per la moda. Ma il punto è un altro. Stiamo mancando l'appuntamento politico con il modello di sviluppo vincente - un modello, sia ben chiaro, più che criticabile ma impossibile da ignorare - e con ciò davvero stiamo finendo ai margini della nuova economia globale. All'ambasciata italiana, prudentemente, ti mettono in guardia dall'infinita gamma di errori che si possono commettere. Due sono quelli più tipici, secondo il ministro Ferdinando Nelli Feroci: «Pensare di cavarsela presentandosi qui con prodotti obsoleti che non si vendono più a casa nostra. E sottovalutare gli sforzi necessari per la distribuzione su questo immenso territorio». Ma Sisci invece si unisce a De Michelis nell'ottimismo: «Chi investe qui ha due anni di esenzione fiscale, altri due di semi-esenzione, poi allunga i tempi non denunciando profitti per un po' e solo a quel punto se li vede tassare al 50%». «Certo non è un Paese da investimenti mordi e fuggi - gli fa eco l'ex ministro - ma provate a immaginarvi che qui tra il 1990 e il 2030 si compie quella transizione dal [««industriale all'industriale che 'America e l'Europa han fatto in centequarant'anni fra il 1830 e il 1970. Sapete cosa vuol dire, con un mercato da 1 miliardo e 250 milioni di persone? Vuol dire che non hai il problema della saturazione, se azzecchi il prodotto giusto lo vendi per cinquantanni». Tanto più che i cinesi saltano un intero ciclo di sviluppo tecnologico: in molte regioni gli conviene installare una rete satellitare prima dei cavi a terra, sicché la telefonia cresce al ritmo del 30-40% annuo e la Cina è 0 primo Paese in cui sia stato sperimentato il Gsm mondiale. Stesso discorso sui trasporti: i velivoli possono essere un risparmio rispetto alle strade da costruire, e allora nei prossimi 5 anni si preveda la realizzazione di 41 aeroporti. L'industrializzazione chiese segna dunque la fine definitiva dell'epoca dei «beli», cioè dei più tra dizionali insediamenti produttivi del pianeta, dal trapezio del Nord Est americano al triangolo che ha per lati la Ruhr tedesca, il Nord francese e il Belgio, fino al Mi-ToGe italiano. Le imprese delocalizzano in quanto ormai il costo del trasporto dei semilavorati o dei beni finali è di gran lunga inferiore ai margini di profitto: può capitare Eerfìno a certe aziende tessili imam; di far viaggiare due volte andata e ritorno i semilavorati in circolo sugli 8 mila chilometri che ci dividono dalla Cina, prima di esibire il pullover di cachemire in vetrina con l'etichetta iliade in Italy. Chi vuole irraggiarsi dentro questo sistema nervoso planetario dovrà modificare tutti i suoi metodi di lavoro: che sia un piastrellista di Sassuolo interessato a rivestire i bagni dei 200 alberghi-grattacielo in costruzione contemporaneamente a Shanghai; oppure un produttore di elettrodomestici che vuole inseguire i grandi successi cinesi della Merloni; o h stessa Piaggio che con il nuovo stabilimento di Foshar - ne: pressi di Canton - punta a ;.'odui i e 400 mila motoveicoli l'anno per insidiare l'egemonia della Honda. A questo fine, gli approcci italiani - cioè di un Paese 32 volte più piccolo della Cina - al Modello asiatico, possono risultare opposti fra loro. C'è l'approccio entusiasta e c'è l'approccio critico, ma scegliere non è per niente facile, neanche quando si viene a verificare di persona. Prendiamo due libri. Da una parte «Vele verso la Cina» scritto dalla bocconiana Maria Weber per le edizioni Olivares, col sottotitolo «come produrre e vendere nel più grande mercato del futuro». Dall'altra la «Lettera da Singapore, ovvero il Terzo Capitalismo» del sociologo torinese Giuseppe Bona zzi che come dice il titolo si è fermato alle porte della Cina Popolare ma pure ne affronta gli enigmi fondamentali. La Weber fornisce tutti i suggerimenti più utili per introdursi addirittura umilmente nei meccanismi di un business così riassumibiIc: il reddito prò capite dei cinesi, che era nel '91 di 370 dollari annui, balzerà nel 2000 a 831 dollari. Ma già adesso ci sono 100 milioni di cinesi che guadagnano più di mille dollari al mese, e tale cifra salirà a 270 milioni di qui a fine secolo. Ecco allora i capitoli dai titoli forse insoliti come «La negoziazione non ha mai fine» o «L'ossessione cinese di salvare la faccia», tutti finalizzati però a adeguarsi e concludere l'affare. Non appaia ingenuo, di fronte al pragmatismo della Weber, il malessere che si esprime nella metafora della «grande voliera» adoperata da Bonazzi dopo una visita al Parco degli Uccelli di Singapore, dove una rete appesa ad un gigantesco pilone si stende sugli alberi per centinaia di metri. «Qui sei di fronte all'ambizione di fondere e confondere natura e tecnica», osserva. Per poi passare dagli uccelli agli uomini orientali: «L'apparenza diviene realtà, solo che si accetti di stare al gioco. Io sono libero se ignoro i vincoli entro cui l'autorità mi fa vivere, e sono ancor più libero se conoscendo quei vincoli liberamente li accetto». Non c'è niente di più misero, alla vista, di una fila di piccoli operai cinesi stremati dalla fatica per la strada con la ciotola del riso tra le mani. Ma è impossibile dimenticare come il vivere nella «grande voliera» si configuri per loro come un enorme progresso rispetto al «morire in gabbia» del passato. Si capisce qui dentro una società da millenni fondata sull'autoritarismo - la stessa difficoltà ad accettare i principi elementari della clausola sociale invano discussa all'assemblea del Wto: i 250 milioni di bambini asiatici sfruttati magari nella fabbricazione dei giocattoli per i loro coetanei occidentali, di sicuro necessitano di tutela internazionale. Ma è davvero pensabile un loro istantaneo allontanamento dal sistema produttivo? Il nostro mediatore Gianni De Michelis, come tutti gli uomini d'impresa non sia a preoccuparsi troppo degli effetti collaterali dello sviluppo. Semmai misura la crescita del reddito e il conseguente incremento di consumi che ne deriverà. E in base a ciò si muove: dopo aver lanciato a Pechino il progetto dei prefabbricati, eccolo puntare decisamente sulla grande regione Sud-Occidentale del Sichuan, 120 milioni di abitanti a cavallo tra le zone economiche speciali della costa già aperte al capitale straniero e il gran nulla tibetano. A Chengdu, la nebbiosa capitale del Sichuan, verrà a prenderci in aeroporto Gu Jun, 34 anni, grisaglia occidentale, ex ingegnere elettronico divenuto procacciatore d'investimenti stranieri e dunque agente locale di De Michelis. E' col suo aiuto che tratteremo l'affare Eiù grosso del viaggio, con tanto di ;ttera d'intenti firmata al termine di una raffinata cena ufficiale col vicegovernatore Gan Uiping e la manager ultrasessantenne Zhu figura nieri che estabile Fen Ji, dotata di cipiglio austero e grosse scarpe da ginnastica bianche. Si tratta della costruzione del primo grande centro commerciale di Chengdu, centomila metri quadri di ipermercato con tutto attorno negozietti e ristoranti all'ultima moda occidentale. La mattina, nella sala riunioni della Chengdu HiTech Development Zone, bandiera nazionale e dirigenti di partito schierati, a un certo punto avevano sgomberato il tavolo dai crisantemi e dai garofani rossi per srotolarvi la mappa di Chengdu nel 2020: «Fin qui è la città esistente», spiegava il giovane urbanista con l'orologio d'oro, la penna a stelle e strisce e le dita lunghe, indicando un piccolo cerchio centrale. «Il resto è in costruzione. Mistel Gianni, calcoliamo 45 dollari al metro quadro». Esosi come sempre i cinesi. A pranzo, in albergo, Gu Jun si porta un'amica, la figlia del comandante dell'esercito in Tibet, che non sa una parola d'inglese ma in compenso non smette un attimo di urlare nel telefonino: ha investito forti somme nella Borsa di Shenzen che oggi ribassa. Così le Cine si sommano l'una sull'altra, a un ritmo di colpo divenuto convulso. E' Shanghai il luogo cruciale di tale contraddittoria stratificazione. In che direzione potrà mai camminare quella sua folla asiatica perennemente formicolante, come lontana e indifferente a qualsiasi evento storico? Ammirarne il nuovissimo, splendido, moderno Museo è come verificare una munificenza di reperti dal ventunesimo secolo avanti Cristo fino alla dinastia Qing che muore nel 1911, ma degli ultimi due secoli è offerta solo la testimonianza di un'assenza. Adesso, qui, fuori dalle porte del Museo, il respiro potentemente inconsapevole della Storia ci fa balzare oltre quel fossato, direttamente fino alla postmetropoli allucinata di Biade Runner. La città-cantiere di uno Statoazienda ha un che di apocalittico, ma la sua forza si percepisce inarrestabile. Di fronte al vecchio, délabré Peace Hotel, sull'altra riva dello Huangpu che disegna una curva a gomito, hanno piazzato una torre televisiva da 468 metri, con tanto di ristoranti e hotel incorporati. De Michelis la visita con entusiasmo fanciullesco. Anche perché di lassù contempla il sorgere dal nulla di Pudong, quella che diventerà presto la Manhattan d'Oriente, nuova città finanziaria grazie alla quale si prevede che la Borsa di Shanghai soppianti quella di Tokyo. Già quattro milioni di persone vivono là dove negli Anni Ottanta sorgeva solo un villaggio di pescatori. Durante l'ultima sua visita da ministro, nel '91, la prima di un governante occidentale dopo la strage di piazza Tienanmen, De Michelis aveva siglato un accordo da 300 milioni di dollari con cui l'Italia doveva partecipare alla realizzazione delle infrastrutture di Pudong. L'anno dopo venne Mani pulite, e non se ne fece più nulla: così anche in Estremo Oriente hanno potuto assaggiare i danni della tangentopoli nostrana. Ma che importa, ormai: il rimpianto di Gianni De Michelis si stempera in un bagno caldo di devozione assoluta dentro cui egli stesso può immergersi grazie alla sua Stefania. Che lo incoraggia amorevole perfino quando a lui tocca solamente di siglare il conto del ristorante: «Firma, Lupis de Lapis, firma. E mettici la tua potente zampata d'orso come sigillo». (2-fine) L'ex ministro De Michelis: questo mercato sarà il nostro futuro Le nuove città hanno un che di apocalittico e di inarrestabile \ Nessuna nostra azienda figura i tra le trenta maggiori joint venture con gli stranieri In alto una veduta di Shanghai. Sotto operai all'opera in un cantiere. A destra Gianni De Michelis firma un contratto m \ i In alto una veduta di Shanghai. Sotto operai all'opera in un cantiere. A destra Gianni De Michelis firma un contratto m