PRIMO LEVI l'incubo del rifiuto

PRIMO LEVI Il tormento di non essere creduto, il difficile rapporto con gli editori: una testimonianza rivelatrice, verso il decennale della morte PRIMO LEVI l'incubo del rifiuto *<■ HA VA MG a casa sua, den§ < tro uno studio in penomM bra. Parlavamo sottovoce. Il Dopo aver discusso della .~* follia della Germania, della presenza del diavolo nella storia tedesca, della concezione spietata che Lutero ha di Dio, della colpa di essere nati, del Lager nazista e del Lager comunista, delle differenze tra Se questo è un uomo e Una giornata di Ivan Denisovic, eravamo passati a parlare dello scopo della scrittura. Levi mi aveva ricordato il suo vero incubo di quand'era prigioniero de) Lager, e l'incubo era questo: sognava che tutto finiva, lui tornava a casa, e si metteva a raccontare, la sorella lo ascoltava indifferente, si alzava e se ne andava. Non gli credeva. Nessuno gli credeva. Quel che lui raccontava era delirio, non realtà. Nel Lager aveva confidato questo sogno ad altri, e tutti rispondevano: «Succede anche a noi». Era dunque l'incubo collettivo: tomare, testimoniare e non essere creduti. Col rifiuto che la Einaudi inflisse al primo libro di Levi, Se questo è un uomo, l'incubo diventava realtà. Lui era tornato, aveva raccontato tutto per filo e per segno, in un'opera che oggi sentiamo come immortale (Claudio Magris: «Le opere di Levi ce le troveremo di fronte al momento del Giudizio Universale», quando la storia e l'umanità saranno finite), e chi per la Einaudi aveva preso in mano il suo «diario» e lo aveva letto, aveva concluso: immeritevole di pubblicazione. Levi lo pubblico altrove, presso un piccolo editore di Genova. Ma continuò a cercare l'edizione Einaudi, per anni. Per anni, fu respinto. La mia domanda era: «Quello che oggi ci appare necessario e irrinunciabile - ogni classico è tale -, appena finita la guerra non esistevano forse le condizioni perché fosse capito e accettato?». Rispose (sto citando da una mia Conversazione con Primo Levi, un libretto di 70 pagine edito da Garzanti, che non ebbe grande circolazione): «Effettivamente il manoscritto non fu accettato per parecchi anni, e quello che mi ha sempre sorpreso è che chi lo aveva letto era una personalità della letteratura italiana, ebrea, vivente. Se spegne il registratore glielo dico». Spensi e lo disse. «Le motivazioni furono molto generiche: le solite che danno gli editori quando restituiscono un manoscritto. Non so perché sia stato rifiutato: forse fu solo la colpa di un lettore disattento». La formula usata da Levi è astuta. Quando dice: «Una personalità della letteratura, ebrea, vivente», fa pensare a una donna. Quando dice «colpa di un lettore», fa pensare a un uomo. Rivedemmo il testo della conversazione in occasione dell'uscita di 1 sommersi e i salvati, e ne scegliemmo un ampio estratto, da pubblicare su Panorama. Levi scelse le parti che riguardano il diavolo nella storia tedesca, la colpa di essere nati, Auschwitz come prova della non-esistenza di Dio. Rileggendo il testo, alla fine del dialogo scrisse una piccola aggiunta. La mia ultima domanda era: «Auschwitz è la prova della non-esistenza di Dio?». E la sua ultima risposta era stata: «C'è Auschwitz, quindi non può esserci Dio». A questa risposta aggiunse: «Non trovo una soluzione al dilemma. La cerco, ma non la trovo». L'europeo che legga I sommersi e i salvati ne esce con la scoperta di essere figlio di una storia colpevole: non la storia tedesca, ma la storia europea e cristiana. Il mio rapporto con Levi nasce da qui: non è un rapporto tra autori, di cui uno raccomandi l'altro, ma è il rapporto di un cristiano che si sente chiamato in causa dalla testimonianza dello scrittore ebreo, e vuole che quella testimonianza circoli. Finito il libro, lo raccomandai a Gallimard. Le cose andarono in maniera più complicata di come racconta Myriam Anissimov, nella sua monumentale e appassionata biografìa di Levi pubblicata ora da Lattès: Primo Levi ou la tragèdie d'un optimiste. Il direttore della Gallimard era allora Hector Bianciotti (adesso dirige la Grasset), che mi telefonava tre-quattro volte l'anno per informarsi sulle novità letterarie italiane. Ignoro come siano andate le discussioni in casa Gallimard, ma durarono un anno intero. All'inizio Hector mi dice che c'è un problema, senza spiegamù quale. Per sbloccare la situazione, interpello iJbération (Jean-Baptiste Marongiu, Antoine De Gaudemar). Mi rispondono che la cosa migliore è un articolo, lungo, informativo e ragionativo, che faccia conoscere Levi ai francesi. Ci lavoro due giorni e lo mando. Era la settimana alla fine della quale Levi mori. Morì di sabato. Nulla di quanto avevo ca- pito di lui mi aveva dato il presentimento di quella morte. Il martedì dopo mi arriva una sua lettera. Come vedo sul retro, nei soliti caratteri bastoncini, molto grandi, «Primo Levi, corso Re Umberto...», mi prende un senso d'impotenza: adesso nù spiega che si uccide, ma non posso farci nulla, lo ha già fatto. Invece, era una lettera vitale, piena di attese e di progetti. Temeva che Gallimard avesse perso la copia di / sommersi e i sai vati, voleva subito mandarne delle altre. Mi chiedeva di spedirgli l'articolo di Liberation appena fosse uscito. L'articolo usci il giorno dopo, mercoledì. Dopo una settimana, mi arriva una telefonata dalla Gallimard. Bianciotti mi informa, con preoccupazione, che l'editore Albin Michel voleva prendere / sommersi e i salvati, e mi prega di convincere la signora Levi, Lucia, a preferire Gallimard. Telefono alla signora Lucia. Risponde, con franchezza, che non conosce gli editori francesi, non sa chi sia meglio, se però si sente consigliare Gallimard, sceglie Gallimard. Una settimana dopo Hector mi dice che Albin Michel alza la posta, vuol prendere tre libri di Primo Levi, e nù prega di ùiformare la signora Levi che anche la Gallimard è disposta a prendere tre libri. Una settimana dopo telefona ancora Hector, mi prega di far arrivare alla signora Lucia questo messaggio: «La Gallimard è dispo¬ sta a prendere di Levi tutte le opere che si possono prendere, a condizioni non inferiori a quelle di nessun altro». Tutto dovrebbe concludersi li, e invece tutto si complica: due settimane dopo chiama ancora Hector: Albin Michel è funoso per gli ostacoli che incontra, lui aveva deciso di prendere Levi quando Levi era libero, cos'è questa tardiva intromissione? Hector mi chiede di mandargli l'ultima lettera di Levi, nella quale Levi esprime il desiderio e la speranza di essere pubbli cato da Gallimard. Mando la lettera. Ultima telefonata di Bianciotti: vista la lettera, scritta a mano, inequivocabile, Albin Michel si rilira: è giusto che Levi esca presso l'editore che preferiva. All'uscita di / sommersi e i salvati, l'Istituto Italiano di Cultura di Parigi organizza una presentazione. Ci son tutti i maggiori giornali di Parigi. Viene anche Pikolo, compagno di prigionia a Auschwitz, che ora vive a Strasburgo. Se c'è un giorno che segna l'entrata di Levi nella cultura francese, è quello. Le difficoltà di comprensione e di accettazione di Levi non si verificarono solo in Italia e in Francia, ma anche in Germania dell'Est e in Russia. Ogni tanto, a Padova, viene a trovarmi qualche mio traduttore. Quando veniva il traduttore tedesco (di Berlino, della parte che una volta si diceva dell'Est), Joachim Meinert, gli spiegavo che la cultura dell'Est aveva bisogno di conoscere Levi. Mi rispondeva che l'editoria dell'Est giudicava Levi un bugiardo: il Lager non era quel deposito di anime morte che Levi descrive, il Lager era un grande focolaio di resistenza partigiana antinazista. Quando veniva il traduttore russo, un professore all'università di Mosca. Mickail Andreiev, discutevo con lui sulla coerenza di una traduzione russa di Levi, liberato dall'Annata Rossa Mi ha sempre risposto (l'ultima volta, l'estate scorsa) che è presto, la Russia non è pronta a conoscere lutto sui Lager. Mi par di capire che in Russia il problema è il collegamento Lager nazista-Lager comunista. Andando in Croazia, a guerra non ancora finita, uno dei primi autori italiani che ùivitavo a tradurre fu Levi. Lo han tradotto fulmineamente. Credo che serva ai croati più di tanti articoli di giornale o processi. Forse l'Istituto Italiano di Cultura di Zagabria allora diretto da Grytzko Mascioni ha fìnanziato la traduzione: se ha speso soldi dello Stato italiano, ha fatto bene. La non-traduzione di Levi in Russia significa la non-liberazione di Levi da parte dell'Armata Rossa. Levi non era a Auschwitz 1 (il cen¬ tro dell impero concentrazionario, con la sede del comando, e le baracche in muratura: il primo che s'incontra arrivando da Cracovia), e neanche a Auschwitz 2 (Birkenau: il vero inferno, con una fila di crematori, di cui si vedono adesso le rovine, scappando, le SS li han fatti saltare con la dinamite); era a Auschwitz 3. La cosiddetta «liberazione» da ^arte dell'Armala Rossa fu ùi realtà l'arrivo di quattro soldati russi a cavallo, col mitra a tracolla. In quel momento Levi era fuori dell'infermeria, stava seppellendo un amico. Il campo era più basso delta Jtrada. Dalla strada, dritti .ni jóvalli, i cavalieri guardarono il Lager a lungo e non aprirono ììiai bocca: secondo Levi, si vergognavano. C'era Auschwitz, e l'umanità si vergognava. Dunque, lo liberarono i russi. Ma rifiutando di tradurgli le opere, e ritenendole false, gli dicevano: «Vai, sei libero. Ma l'inferno da cui ti liberiamo non esiste. Se scriverai qualcosa di questa esperienza, noi la bloccheremo. Se dirai la verità, diremo che menti». Il sogno-incubo del Lager diventava realtà: parlare e non essere ascoltati. Si anticipava quel che succederà in Italia, col rifiuto della casa Eùiaudi. Levi non ha mai dimenticato quel rifiuto. Gli bruciava per due ragioni: perché chi lesse la sua opera non la capi; e perché questa persona era un'ebrea. La sua netta convinzione è che lesse distrattamente, non capi e non reagì II nome che aveva pronunciato, a registratore spento, era Natalia Ginzburg. A mezzo secolo di distanza, la Einaudi dà oggi una interpretazione diversa e anzi opposta: che la Ginzburg provo un «eccesso di reazione», ne fu travolta, e non riuscì nemmeno a terminare la lettura (Ernesto Ferrerò, su La Stampa del 7 dicembre). E' un procedimento che gli storici chiamano «argumentum ex silentio», cioè senza prove. Di solito una reazione del genere porta a pubblicare il manoscritto di corsa, non a rimandarlo all'autore con indifferenza. Probabilmente, la Ginzburg non ha reagito al libro di Levi perché è un racconto freddo, e può trasmettere freddezza. Ma la freddezza di Levi - la sua classicità - era la sua arma: Levi resta freddo per essere un testimone attendibile. Il testimone non deve punire: spetta al giudice, cioè al lettore. In questo caso, il lettore-giudice, la Ginzburg, è stato contagiato dalla freddezza del testimone, e non ha fatto giustizia, li torto che Levi subiva era grande: era esattamente il suo incubo. Ora che l'incubo è svanito, non facciamolo tornare. Ferdinando Catnon Ancora oggi in Russia non viene tradotto: si teme il collegamento fra Auschwitz e i gulag E' come se al momento di liberarlo gli avessero detto: «L'inferno da cui ti salviamo non esiste» Un sogno nel Lager: a casa neppure la sorella gli avrebbe prestato fede Fu una premonizione: confermata dai molti no alle sue opere Un sogno nel Lager: a casa neppure la sorella gli avrebbe prestato fede Fu una premonizione: confermata dai molti no alle sue opere Primo Levi in una foto di Mario Monge. In alto a destra un'immagine di Auschwitz Primo Levi in una foto di Mario Monge. In alto a destra un'immagine di Auschwitz