Fujimori non cederò mai Ma Tokyo dice: stiamo trattando

Allarme dalla Croce Rossa: la situazione sanitaria è ormai insostenibile, c'è rischio d'epidemie Uà LUNGA ATTUA Di UNIA Partita a scacchi intorno all'ambasciata dove i guerriglieri tengono ancora 340 ostaggi Fuiimori: non cederò mai Ma Tokyo dice: stiamo trattando DAL NOSTRO INVIATO Se non fosse perché quei 340 disgraziati che se ne stanno chiusi dentro la villa giapponese rischiano la morte, questa storia dell'assedio ai guerriglieri peruviani passerebbe sempre più per una delle tante avventure di una terra dove il grottesco è la più forte delle tentazioni. Pensare a gente che non sa bene come finiranno le cose, e poi vedere una camionetta della Croce Rossa che arriva e scarica 14 cessi - di quelli da campeggio - e li porta in villa per aiutare la liberazione (quanto meno degli intestini: la mancanza di igiene dentro l'ambasciata è così grave che si rischiano epidemie) dei poveri ostaggi, fa capire come questa prima settimana di assedio ai 22 guevaristi del Movimento Revolucionarìo Tupac Amaru si stia consumando in un dina dove c'è davvero poco rispetto per la tragedia che, comunque, sta dietro l'angolo di una muraglia grigia protetta da 500 poliziotti. Ma qui fa caldo, un caldo dannato, e siccome da ieri è arrivata l'estate ora anche i poliziotti si sentono in diritto di prendersela con più rilassatezza. C'è insomma un'aria un po' sudamericana, in tutta questa storia, e il fatto che ieri il presidente Fujimorì si sia finalmente presentato in tv a dire ai suoi connazionali che equi non c'è spazio per la trattativa», e che i guerriglieri «debbono liberare tutti gli ostaggi e consegnare le armi a un comitato di garanti» è stato accolto con qualche distrazione, perché, tanto, si sa bene che una trattativa è comunque in corso - segreta, segretissima, naturalmente. E si sa che il ministro giapponese Ikeda, prima di tornarsene a Tokyo, ha incontrato i parenti nipponici degli ostaggi e li ha rassicurati. «Stiamo trattando», gli ha detto. £ ha fatto capire che Fujimorì può anche fare di testa propria ma rischia di brutto, se poi dispiace troppo ai finanzieri dello yen. Qualcuno ha messo in giro la voce che i guerriglieri - pensando proprio a quegli yen - starebbero chiedendo sottobanco qualche giro di miliardi alle grandi società giapponesi che hanno dentro la villa i loro capoccioni. Ma a questa voce non crede nessuno, sono le belle invenzioni di un servizio di spionaggio che si è fatto fregare di brutto e ora sta tentando di creare confusione per vedere poi come va a finire. Nella villa comunque l'aria s'è fatta dewero pesante. Ma siccome gli ostaggi sono tutta gente di buona qualità, il clima pisocologico resta ancora disteso; e per evitare la noia, o ridurre le tensioni, i signori ostaggi si sono anche dedicati a quello che sanno fare: stanno montando delle tavole rotonde e dei dibattuti, e ciascuno degli illustri esperti conciona del proprio sapere: si parla di globalizzazione dell'economia, di evoluzione dell'industria, di rapporto tra sapere e potere, di mercato interno latino-americano. E di molte altre faccende simili. E intanto il tempo passa. E chi non se la sente di fare sfoggio di dialettica, trova il modo di giocare a domino o a carte. O anche a scacchi. Ma questo degli scacchi è uno sfondo assai più intrigante. In un vecchio film di Bergman, eli settimo sigillo», un antico cavaliere crociato si giocava la propria vita contro la Morte, sfidandola appunto a una drammatica partita a scacchi. Era una partita senza trucchi, dove l'intelligenza dello sfidante osava scavalcare la frontiera del possibile; e il gioco, poco alla volta, mossa dopo mossa, rivelava il vero senso della posta gettata sul tavolo. Ora che si è tagliato la barba e la sua faccia si fa vedere aspra, legnosa, com'era quella di Max Von Sidow, il «camarada Evaristo» pare fi¬ farsi sempre più al cavaliere di Bergman: anche lui si sta giocando ormai la propria vita, in una partita a scacchi dove 340 «pedoni» - per la verità più annoiati che esausti - aspettano di sapere se dovranno morire aneli essi con il cavaliere resuscitato, o se, invece, saranno le pedine di scambio di un gioco che alla fine cambierà la storia stessa del Perù. Quello che è certo, comunque, è che i nipotini del «Che» ci sanno propino fare. E a una settimana dall'assalto alla villa del giapponese chiudono nettamente a loro favore il primo round dello scontro. Fujimorì è messo sotto scacco, e il cavaliere può preDarare la prossima mossa. Quando, martedì scorso, i 23 guevaristi presero prigionieri gli 800 ospiti dell'ambasciatore Murìhisa Aoki, la sorpresa del colpo venne data non tanto dalla dimensione fortunosamente abnorme, davvero da Guinness, della retata guerrigliera - che si trovò tra le mani un'ambasciata affollata quanto una piazza la domenica mattina - ma piuttosto dalla riapparizione in pubblico di un progetto di lotta armata che sembrava consegnato per sempre all'archeologia utopistica degli Anni Sessanta. Sette giorni dopo, mentre l'inutile folla dei gkirnaUsti continua a girare dietro il muro al di là del quale la partita si sta giocando, si è fatti evidente che gli Anni Sessanta sono soltanto una cornice formale, e che dentro questa cornice il confronto politico va ben oltre le ragioni delle armi. La partita in gioco ora è tutta in un'alternativa: o la Morte (del cavaliere-camarada e di chissà quanti altri poveri disgraziati in abito da sera) op- fiure un progetto politico di souzione della lunga lotta guerrigliera in terra d America Latina. Il comandante Evaristo lo ha detto chiaramente, già nel linguaggio rituale del comunicato dell Mita il primo giorno della cattura degli ostaggi, ma poi anche l'altro ieri, quando ha potuto parlare senza ritualismi al microfono di «America-Televisión». Questa storia della «solu¬ zione pacificatrice» è stata un'offerta che le guerrìglie sudamericane facevano sempre ai dittatori dei loro Paesi, per scardinarne la claudicante legittimazione; ma questa volta il meccanismo del consenso che la proposta di «Evaristo» ha avuto all'interno stesso del potere politico peruviano (che comunque è un potere formalmente legittimo) mette in moto un processo la cui conclusione non è più la fine di un regime ma, semmai, la riconciliazione nazionale. E come ai tempi di Esquipulas per le guerrìglie dell'America Centrale - il «Che» diventa un busto di marmo da piazzare da qualche parte e intanto la politica fa la propria parte. Le incognite che restano aperrte sono infinite, anche le più tragiche. «Ma quello che conta - dice l'ex cancellerie Simon Consalvi - quello che conta è saper cogliere i segni di una chiara volontà di negoziato che stanno dietro le parole di Néstor Cerpa Cartoli ni, e aprirne ogni possibile soluzione». Consalvi parla così chiaramente perché non è più un ministro, come il suo collega Francisco Tuleda che ora è uno degli ospiti forzosi della villa giapponese. Però è molto significativo che perfino Tuleda, parlando anche lui ad Amerìca-Televisión da una delle stanze della sua maledoorante prigione, abbia detto al suo presidente Fujimorì di «esaminare con profondità e senso riflessivo le proposte dell'Mrta, che mostrano una netta disponibilità al negoziato». Fujimori ora si trova solo, sempre più solo, a dover decidere. Se cede, rischia di distruggere la sua immagine di efficiente ripianatore di ogni tentazione sovversiva; se resiste, rischia il bagno di sangue e la fine di ogni credibilità del suo porgetto di un Perù paradiso degl investitori stranieri. Certo, in questa tenibile solitudine, Fujimori si trova seduti nell'anticamera tutti i generali di qui con i loro medaglieri di guerre mai fatte. E in America Latina i generali non sono stati mai una compagnia molto confortante. Mimmo Candito Allarme dalla Croce Rossa: la situazione sanitaria è ormai insostenibile, c'è rischio d'epidemie li presidente peruviano chiede in tv la resa incondizionata del commando dei Tupac Amaru Si è sparsa la voce che sia stato chiesto un riscatto miliardario per i manager giapponesi „ Militari dei corpi speciali peruviani pronti all'azione e (sotto) il «comandante Evaristo». capo dei ribelli Tupac Amaru (foto ansai Un'immagine ripresa ieri all'interno della sede diplomatica sequestrata dai guerriglieri Al centro il capo della polizia anti-terrorismo Maximo Rivera fra altri due ortaggi non identificati „ (foto ansa)

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