Un po' di velcro sulla Luna e dentro il cuore

Un po' di velcro sulla Luna e dentro il cuore Un po' di velcro sulla Luna e dentro il cuore Le mille applicazioni di un 'idea suggerita dai fiori di una pianta alpina GEORGES de Mestral era un ingegnere svizzero che amava le lunghe passeggiate sui sentieri delle Alpi. Ma ogni volta che tornava al suo chalet prima di entrare in casa doveva ripulire il maglione e il pelo del suo cane dai frutti della bardana (nota anche come lappola o, popolarmente, «attaccaveste») che inevitabilmente gli si appiccicavano addosso. Una sera, seduto davanti al camino, se ne ritrovò ancora uno saldamente ancorato sotto il gomito. Fu stupito da una presa tanto tenace. Allora staccò con cura il fiore di bardana e lo osservò attentamente: quelli che a prima vista potevano sembrare tanti piccoli aculei terminavano in realtà con un minuscolo gancio, come in un ferro da uncinetto. Infatti il suo nome scientifico è Arctium lappa (arctium in latino significa arto con cui ci si può appigliare. agganciare) perché la sua caratteristica è quella di agganciarsi al pelo degli animali per essere trasportata in cerca di nuovi terreni fertili su cui attecchire e riprodursi. Al minimo contatto con una superficie pelosa (il manto di un cane, ma anche i microscopici anelli di un tessuto di cotone o lana) un certo numero di ganci entra in azione fino a quando uno strattone non li costringe a mollare la presa. Ma senza alcun danno per l'infruttescenza della bardana, che può così aspettare un altro «passaggio», fino a quando, raggiunto un luogo adatto, diventa seme per una nuova pianta. E' uno dei tanti sistemi che la natura ha escogitato per permettere la conquista di nuovi spazi alle specie vegetali, per loro natura immobili. De Mestral portò una manciata di lappole nel suo laboratorio, le studiò al microscopio I e tentò di riprodurne artificialmente la struttura. Dopo otto anni di caparbi tentativi, finalmente nel 1948 brevettò il velcro, termine nato dalla fusione di due parole francesi: velours (che significa velluto) e crochet (occhiello). Oggi il velcro viene fabbricato con il nailon. La parte «occhielluta» si realizza tessendo il filo di nailon in modo da ottenere una superficie brulicante di anelli. Per ottenere la parte «uncinante» basta invece tagliare a metà gli anelli. Entrambe le facciate del velcro vengono poi scaldate per irrigidire il nailon e fargli mantenere la forma. In un pezzo di velcro grande come un'unghia ci possono essere anche 800 uncini da un lato e ben 12-13 mila anelli dall'altro. Se per strappare le due superfici una dall'altra basta poca energia, il velcro ha un'incredibile capacità di op¬ porsi alle forze laterali: un quadrato di 12 centimetri di lato può resistere al peso di una tonnellata. Dapprima ci fu diffidenza verso questa strana chiusura ma in un secondo tempo, dopo che la Nasa la utilizzò per le tute spaziali dei suoi astronauti, una giacca con la chiusura a velcro divenne l'ultimo grido della moda, una raffinatezza da ostentare con gli amici. Oggi è impiegato in un variegato ventaglio di occasioni: a parte gli impieghi più comuni nell'abbigliamento e per borse e borsoni di tutti i tipi, gli astronauti usano il velcro per fissare alle pareti, in assenza di gravità, praticamente tutto, dalle confezioni di cibo alle apparecchiature scientifiche, mentre in chirurgia è stato utilizzato per unire alcune cavità del cuore artificiale Jarvik-7. Andrea Vico Il velcro, con i suoi uncini, visto in un disegno e con l'aiuto del microscopio elettronico a scansione. L'idea di creare questo tessuto adesivo è di un ingegnere svizzero Georges de Mestral

Persone citate: Andrea Vico, De Mestral, Jarvik