Una «sentinella» in convento

Una «sentinella» in convento UNA MISSIONE LUNGA 50 ANNI Una «sentinella» in convento La forza profetica di un monaco-politico SROMA ENTINELLA, sentinella, quanto resta della notte?». E forse solo la potenza evocativa della Bibbia, in quel versetto che fa da titolo a una recente raccolta di scritti, riesce a comunicare le speranze ancora oscure, il cammino accidentato e la forza profetica di un uomo, di un vecchio, che come nessun altro ha legato la propria imprevedibile esistenza ai destini dell'Italia e della sua storia remota e presente. E' morto, a 83 anni, Giuseppe Dossetti. Don Dossetti, anzi, monaco e padre della Costituzione; partigiano nella sua Emilia (nato a Genova, da ragazzo si era trasferito con la famiglia a Cavriago, uno dei paesi più rossi d'Italia) con il nome di «Benigno» e professore di diritto ecclesiastico; rivale e quindi vicesegretario della de messo «alla stanga» da De Gasperi; eremita e vescovo mancato (non lo volle Paolo VI: «Il Papa mi ha fatto questa grazia», disse lui); polemista di enorme cultura e sconvolgente precisione e poi mistico adoratore del silenzio tra il verde dell'Appennino e il giallo-ocra sabbioso della Giordania. Era ritornato nella vita pubblica, ultimamente, con un salto di quarant'anni, «come gli antichi padri per dirla con le sue stesse parole che in occasione di invasioni ed epidemie abbandonavano il deserto e tornavano in città per avvertire del pericolo». E allora «Dossetti censurato da Canale 5», si potè leggere sui giornali con straniante naturalezza. Oppure: «I dossettiani contro Berlusconi». Del quale, leader vittorioso, il monaco diceva, anche qui con risonanze da Antico Testamento: «E' un grande seduttore». E a quello stesso Berlusconi attribuì il progetto nefasto di «un Principato più o meno illuminato, con coreografia medicea» che avrebbe portato alla «trasformazione di una grande casa economica e finanziaria in Signoria politica». Pericolo, come s'è visto, scampato. Anzi, dopo Berlusconi, a Palazzo Chigi è arrivato, con Prodi, un cattolico che di Dossetti si può in qualche modo considerare persino un erede. E tuttavia, oggi, è ancora difficile non pensare a quelle vecchie foto bianco e nero, alla Costituente, mezzo secolo fa, insieme con La Pira e Fanfani. Oppure ai racconti del suo primo abbandono della politica, al castello di Rossena, con i giovani Lazzati, Galloni, Malfatti, Ardigò, Elia, Forlani e Baget Bozzo, in montgomery, che cantavano: ((Addio Rossona bella / o dolce terra mia / scacciati senza colpa / i dossettian van via...». I dossettiani. «Ma si può sapere che volete - chiese una volta spazientito Attilio Piccioni - voi dossettiani?». E una voce anonima si levò nel Consiglio nazionale: «L'umanesimo integrale». E talvolta anche un po' integralista. Lui si considerava, sbagliando, ma senza alcuna civetteria, «un prestanome». Il volto pallido, ascetico e intenso del «professorino» per antonomasia, metodico e accanito nel perseguire il disegno severo della sua utopia. Cultura e morale alla base della politica. Stato sociale e intervento pubblico in economia. No al Patto Atlantico (come del resto s'adoperò il suo discepolo sottosegretario agli Esteri Aldo Moro) e soprattutto ai modelli di vita d'oltreoceano. Sì ai rapporti con il Terzo Mondo. Il degasperismo criticato in quanto rischiosa restaurazione dell'ordine pre-fascista. E tuttavia assecondato fino alla rinuncia personale, che pure non gli costò nulla rispetto alla chiamata della fede. Lo chiamavano già «il fidanzato della Chiesa», da destra, o «il pesce rosso nell'acqua santa». Un giorno del 1951 - quindi presto - si stufò e disse basta alle beghe di quel partito in cui cominciava ad agitarsi parecchio il suo (ex?) amico Amintore, con il quale aveva convissuto in una casa di due anziane signore a piazza della Chiesa Nuova, la famosa «comunità del Porcellino». Continuò la sua ricerca «su un altro piano di impegno», teorico e culturale, con figure eminenti della sinistra cristiana tra cui il filosofo Felice Balbo. Lo ripescarono anni dopo, quasi obbligandolo a fare il capolista della de a Bologna contro il sindaco Dozza. Fu sconfitto. E sparì di nuovo: stavolta per quasi quarant'anni. Prese la tonaca nel 1958 e divenne monaco. Fu consulente al Concilio Vaticano Secondo. Poi si consegnò totalmente alla preghiera e alla mistica nella sua forma più assoluta e imperscrutabile. Del tutto isolato, lontano, più che dalla vita pubblica, dal mondo. Proprio quando Moro, Fanfani e alcuni di quei giovani dossettiani abbandonati a Rossena occupavano a loro modo lo Stato, dando forma, in pratica, all'Italia repubblicana. Affinato nella spiritualità, il fervore di don Dossetti trovo sollievo nella costruzione di comunità di preghiera, opere missionarie e di carità nei pressi di Marzabotto. Nel 1972 abbandonò l'Italia per recarsi in Palestina, dove pure stabilì conventi. L'incontro anche esistenziale con il mondo arabo ed ebraico lo appassionò e lo coinvolse in uno studio ispirato e meticoloso delle radici di una comune cultura religiosa. In Italia quasi tutti si dimenticarono di lui. E i' più giovani neanche sapevano chi fosse, e chi fosse stato, Dossetti. Ritornò nel più naturale silenzio. Ogni tanto qualche illustre de, per esempio Cossiga appena eletto Presidente della Repubblica, andava a trovarlo a Monte Sole. La prima riapparizione pubblica, negli Anni Ottanta ormai, ai funerali di Lazzati, in piena secolarizzazione. In chiesa De Mita, allora segretario della de, rimase intimidito da quella figura di vecchio sottile e ancora più ascetico, con la tonaca giallorossastra dei monaci. Non osava andarlo a salutare. Fu Dossetti ad avvicinarlo. Gli strinse la mano dicendo soltanto: «E adesso possiamo dire di esserci conosciuti...». Ritornò avventurosamente in Giordania, e riprese a parlare in pubblico, nel gennaio del 1991, quando scoppiò la guerra contro l'Iraq. Disse cose terribili sull'Occidente. «Dossetti sì, il dossettismo no» titolò Montanelli, che non se l'era scordato per niente. Gradualmente e «pur distaccato da ogni sentimento mondano e fisso alla realtà ultraterrena», ricominciò a preoccuparsi della vicenda italiana proprio quando sembrava più splendente la stella di Berlusconi. In quella vittoria elettorale, senza troppi dubbi, don Dossetti dovette vedere una qualche manifestazione della «struttura consolidata del peccato e della morte», «la notte dei valori», «il vuoto ideale». «La liberaldemocrazia - sosteneva - è priva di idee e di contenuti sostanziali, sociali, economici. E' un puro nome». Contro le fascinazioni di quel nuovo potere di «manipolazione mediatica» che si rivoltava contro la Costituzione, la sua (anche) Costituzione, aderì a comitati. Più tardi, in nome della futura vittoria di Prodi, trovò il modo di opporsi all'accordo Berlusconi-FiniD'Alema, «mostro tricefalo». Ma il Dossetti più autentico continuava a essere quello che testimoniava la «globalità del rifiuto cristiano». E aggiungeva anche: «Non vedrei con orrore un tempo di Purgatorio per i cattolici in politica». Perché anche loro, «anche noi, abbiamo gravemente mancato». Dossetti era di nuovo diventato, come un tempo, pietra angolare e profetica, forse anche crinale di divisioni. «Guardo non al passato, ma al futuro - ha lasciato scritto - e alla meta che mi aspetta e che sento ormai prossima». E ancora. Sentinella, sentinella, quanto resta della notte? «La sentinella risponde: viene il mattino e poi anche la notte; se volete domandare, domandate, convertitevi, venite». Filippo Ceccarelli E dopo un lungo silenzio arrivò l'«anatema» contro la destra di Berlusconi vittoriosa nel '94 Dalla Resistenza al «no» alla Nato Scontro con Fanfani nel nome di un «Umanesimo integrale» Il presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro a Oliveto di Monteveglio Nella foto grande: Giuseppe Dossetti