«Troppe primedonne in Rai 0 si lavora o me ne vado» di Liliana Cavani

«Troppe primedonne in Rai 0 si lavora o me ne vado» LE SFIDE A VIALE MAZZINI «Troppe primedonne in Rai 0 si lavora o me ne vado» LROMA ILIANA Cavani, come si sente in questo consiglio d'amministrazione che i giornali definiscono una «corte dei miracoli»? «Male replica la regista, consigliere di amministrazione della Rai-Tv -. Anche se queste e altre contumelie sono solo un paragrafo del dibattito politico generale, in gran parte superficiale e volgare. I giornali sono drogati. Possono chiamarci con qualunque nome. Come puoi difenderti? Sarebbe tutta una querela». Ma la Rai non è da oggi nel mirino. Perché lei ci è entrata? «L'incarico me l'hanno dato i presidenti della Camera e del Senato, non i presidenti della Camera di Commercio o della Confindustria. Non dovevano aspettarsi che mi inchinassi devotamente al totem dell'Auditel. Penso che si aspettassero da me quello che posso fare: contribuire a dare visibilità e concretezza ai valori fondanti del servizio pubblico, l'unica struttura non privata di informazione». E oggi, fra le mille polemiche che bersagliano il consiglio, lei che ci fa lì dentro? «Io ho creduto di poter contribuire a muovere la macchina della produzione del cinema. Il nostro Paese ha bisogno di questo diffusore e il cinema ha bisogno di lavorare con la Rai. Gran parte dei programmi tv sono fiction e cinema. Il nostro cinema si è arenato. Non esprimiamo più cose importanti. Per avere cinque buoni film bisogna farne 200: non è possibile che la Rai lo ignori e continui a comprare film americani. Alla vigilia di una radicale trasformazione dello scenario dei media, ho trovato una macchina ferma e arrugginita. Non può partire a 100 all'ora. Ma deve andare. Se poi mi renderò conto che sono incapace, che la mia ambizione è stata superiore alle mie capacità, vorrà dire che sono inadatta a questo ruolo o che la Rai è in una situazione disperata. E me ne andrò via in gran fretta. Non sono venuta qui né per i soldi (ne guadagnerei di più se fossi libera) né per avere prestigio (i vituperi sono quotidiani) né per aiutarmi (se voglio fare un film ci riesco, e chi pensa di salvarsi da solo è patetico). Neppure voglio assistere a una gestione Rai che sia lo specchio di altre». E' il Cda che governa la Rai o i politici che lo hanno nominato? Lei non è mai stata intruppata in partiti o clan politici. Come si destreggia con personaggi lontani anni luce dalla sua storia e personalità? Come è avvenuto l'incontro fra lei e un uomo come Storace? «Non è stato un incontro a tu per tu. E lui è una persona molto intelligente. Per il resto, per quanto mi riguarda, nessuno mi ha mai fatto una telefonata di pressione. Certo, ci sono dei prezzi da pagare. Certi toni arroganti di critica. Ma io ho pazienza». Lei non è Cappuccetto Rosso. Possibile che non si fosse resa conto della situazione in cui versa l'azienda? «Io vinsi un concorso al tempo dei Motta, Gennarini, Romano, Fabia- ni. La missione della Rai era chiara: informare formando, esprimere problemi, far conoscere il Paese, farci incontrare e parlare. Questa vocazione istituzionale del servizio pubblico è andata smarrita, dev'essere ritrovata. Fu Gennarini, una mia specie di padre-putativo, a insegnarmi a tentare e tentare, a non arrendermi davanti a chi non capisce e non asseconda, a immettermi nel mondo della "communication". Questo è il mondo che mi interessa e di cui non posso fare a meno. Quando ho detto sì alla proposta di entrare nel Cda - perendomene su- bito dopo - ho detto sì a Gennarini, ho raccolto la palla che lui mi passava. Un fatto sentimentale? Certo. Ma glielo dovevo questo sforzo. Mi sono detta: ci provo. Affrontare cose nuove mi interessa, posso impegnarmi in un settore dei più vergognosi del servizio pubblico - il cinema per cui si è investito l'anno scorso appena 20 miliardi, una cifra ridicola -, posso spingere per produrre di più e comprare di meno, posso lavorare perché quell'identità culturale del servizio pubblico venga riaffermata. E' stato un po' come pagare a lui un debito di rico¬ noscenza. Un debito che mi costa non poco». Ci riesce? «Noi diamo indirizzi. I direttori devono realizzarli. Loro hanno le leve per gestire la nave. Vorrei che fra noi e loro si dividessero le responsabilità. Ci devono presentare i primi progetti. Ad esempio quanto l'azienda investirà nel cinema, quale spazio verrà dato nei palinsesti ai programmi per i ragazzi. Quella sarà la prima scadenza da cui trarre decisioni sul mio rimanere qui». I risultati non sono brillanti. «Si è santificata la precedente ge¬ stione, che ha fatto spuntare - chiudendo i rubinetti delle spese - un utile di 65 miliardi, utile che non è stato investito in programmi. Abbiamo trovato i magazzini vuoti. L'80 per cento del palinsesto è quello di ieri. Si deve programmare, e allora non resta che l'acquisto: la Rai mi sembra una tossica sempre in cerca di un pusher. 1 progetti hanno bisogno di tempo per diventare realtà. La fiction nuova si vedrà nell'autunno '97, il cinema nuovo ira due anni. Film prodotti in parte dalla Rai. Un cinema italiano ma anche europeo: abbiamo con- lattato Almodóvar, Bertolucci, Polanski, Tavernier, Amelio, Tornatore, Bresson, Verdone. Ma bisogna seminare ora, perché gli alberelli crescano entro qualche anno». Quali gli impedimenti più vistosi a questi progetti? «Non il Cda, che mi ha sempre appoggiato. Ma un'azienda annichilita, paralizzata sulla politica del palinsesto, che ha perso l'elasticità e la flessibilità necessarie per una fabbrica di idee. La burocratizzazione. La mancanza di responsabilizzazione degli interlocutori. Le troppe storture accumulate. La perdita di connessione con la cultura straniera. Voci scomparse, come quella del cinema. O come i programmi pomeridiani per i ragazzi, che non esistono più e per cui sto lottando perché siano trasmessi sulle reti normali non su quella satellitare a venire». Motivi di rabbia o delusione? «Una Rai con troppe primedonne a reclamare la scena tutta per sé. E' normale che per giorni, con tutto quello che accadeva nel mondo, l'attenzione del Paese si concentrasse sui movimenti di qualche star televisiva? E perché poi incolpare i consiglieri se qualche star per proprie ragioni discutibili o indiscutibili decideva di passare al network concorrente? Per quello che ho imparato nel cinema, se una star non ha interesse a fare un film non 10 fa: nessuno è obbligato, ognuno segue il proprio calcolo d'interesse. 11 mercato non è il mondo della poesia». Liliana Madeo La regista Cavani «Una azienda annichilita senza l'elasticità utile a chi fabbrica idee» «Quale spazio verrà dato ai programmi per i ragazzi? Sarà la prima scadenza da cui trarrò decisioni sul mio rimanere a Viale Mazzini», sostiene la regista Liliana Cavani A destra: Enzo Siciliano presidente Rai