Calcutta, cartolina dal Duemila

GE r Le strade percorribili, i marciapiedi sgombri di baracche, una vaga aria da Hong Kong Calcutta, cartolina dal Duemila Addio al cliché in stile Kipling REPORTAGE r CALCUTTA DAL NOSTRO INVIATO Vi scrivo questa lettera da Calcutta. La data è quella dell'anno Duemila. Millennio nuovo, città nuova. Tantissime cose sono cambiate in pochi anni. Questa non è più la «città della notte terribile», come la definì Kipling, né l'inferno sulla Terra raccontato con pennellate di orrore e compassione dagli inviati dei giornali occidentali. Come potete vedere dalle foto che accludo, l'immagine della città è molto cambiata: le strade sono diventate percorribili, i marciapiedi non sono più affollati dalle baracche degli ambulanti e nessuno più abita lì sopra e ha per letto un giornale. Il traffico è sempre intenso, certo, ma è cessata «la cantilena incessante dei clacson e dei più sgangherati autobus e automobili del mondo», come la descriveva Naipaul, e si è perfino dissolta «la foschia nerastra prodotta dal gasolio e dal kerosene che rendeva ancor più spietato il calore del sole e che, mista alla polvere delle strade, incollava alla pelle uno strato di sporcizia». Non ci sono più i risciò a mano, estinti per sempre gli uomini-cavallo che avevano trovato in questa città l'ultima tana sulla Terra e che davano al mondo un'immagine di arretratezza e povertà. Esistono, è vero, ancora molti poveri e lebbrosi, ma vengono assistiti in ricoveri e curati in ospedali costruiti da poco. Le case di Madre Teresa ci sono ancora, ma rappresentano più che altro una testimonianza del passato e un'attrazione per i pellegrini cristiani venuti in India sulle tracce della missionaria. Calcutta, oggi, non avrebbe più bisogno di una seconda Madre Teresa, né di un miracolo. Il possibile è stato già fatto e i risultati sono sotto gli occhi di tutti: questo luogo non è più una vergogna da nascondere, ma una megalopoli asiatica che espone i suoi pregi e i suoi difetti alla luce del sole. Tutto cominciò a cambiare quattro anni fa, alla fine del '96, quando il governo municipale decise di dare il via all'Operazione Sunshine (Luce del sole). Era un momento cruciale nelle vicende dell'Asia. Di lì a pochi mesi Hong Kong avrebbe invertito la rotta della sua storia e Calcutta sperava di intercettare parte dei capitali in uscita, contendendoli a Singapore. Altri possibili investitori si affacciavano dalla Cina e, di lì a pochi giorni, il 9 gennaio del '97, era attesa la visita di una delegazione inglese, guidata dal primo ministro John Major, ma comprendente numerosi uomini d'affari alla ricerca di nuovi tappeti su cui giocare le loro fiches. A tutti costoro si voleva offrire un'opportunità negletta dalla storia e angariata dagli uomini: Calcutta. Ma come farlo, mostrando a costoro tre milioni di persone residenti su un marciapiede, centomila ambulanti accampati con le loro baracche e le loro paccottiglie sulle strade più importanti, cinquantamila ragazze in vendita nell'area di Golden Tree, venticinquemila uomini-cavallo che si sfiancavano per trasportare a mano i loro passeggeri sul risciò, migliaia di morti l'anno per tubercolosi e lebbra e nessuna speranza in cambio di tanta desolazione? L'amministrazione comunista decise di portare, a forza, la luce del sole in quel buco nero. Basta con i risciò a mano, giù con i bulldozer le baracche degli ambulanti, via dal centro tutti i pubblici spettacoli di degradazione e miseria. Certo, all'inizio questo avrebbe significato aggiungere disperati ai disperati, togliere un lavoro da fame a chi l'aveva e lasciargli solo la fame. Una scelta spietata e destrorsa, ma non erano forse, in tutto il mondo, i governi di sinistra a seguire con più energia le politiche economiche di destra? E poi, si diceva, il sostegno popolare era assicurato e, nel lungo periodo, la scelta avrebbe pagato. Nel breve, poco conta che un derelitto lo diventasse ancora di più. Nel dicembre 1996, per dire di uno di questi, Nagar era un uomo-cavallo posteggiato con il suo risciò a Park Circus, proprio come Hasari Pai, il protagonista del romanzo di Lapierre «La città della gioia», quello che muore sputando sangue il giorno del matrimonio di sua figlia, dopo essersi venduto anche il proprio cadavere per farle la dote. Nagar sapeva di avere, anche lui, i giorni contati. O l'ammazzava di fame la giunta di Calcutta, spedendolo a fare il suo lavoro lontano da lì, prima, e vietandoglielo poi, o lo condannava a morte la tu- bercolosi che già gli stava maciullando i polmoni, spezzandogli il respiro con la tosse. Nagar aveva 35 anni. Ogni giorno, da 10 anni, partiva da un villaggio di campagna quaranta chilometri da Calcutta. Lì, tutte le mattine prima dell'alba, lasciava la madre, la moglie e i cinque figli addormentati nella loro capanna e prendeva un treno per venire in città. Andava al garage, pagava 14 rupie per il posteggio notturno e ritirava il suo risciò, nero, numero di matricola 3002. Poi raggiungeva Park Circus e si sedeva accanto ai colleghi aspettando di trovare qualcuno da caricare e attirando l'attenzione battendo sulle stanghe del risciò con il sonaglio d'ottone. Intanto parlavano dei loro dolori: alle gambe e alla gola; dell'amministrazione comunale che non dava più nuove licenze, del monsone che li aveva flagellati il mese prima e dell'umidità che marciva l'aria adesso. Trovato il cliente, Nagar partiva. Fissava il prezzo, dalle quattro alle sette rupie per chilometro a seconda che il passeggero sembrasse più o meno ricco, poi si chiudeva intorno alla bocca uno straccio a quell'ora ancora pulito per non inspirare i miasmi del traffico, sollevava le stanghe e andava con i suoi piedi scalzi. Via, dentro un termitaio senza legge né ordine, sensi di marcia o diritti di precedenza. Un universo regolato dalle stesse norme della catena alimentare nel mare: il camion divora l'autobus, l'autobus il taxi, il taxi il risciò a pedali, il risciò a pedali quello a mano. Chi va a piedi, riposi in pace. Alla sera Nagar contava le sue entrate. Pagava 40 rupie a Wahed, il musulmano che gli affittava il risciò per conto di Asini, l'uomo che appariva come proprietario di 72 veicoli, ma era solo la testa di paglia di un altro uomo, un membro della giunta municipale, che ne aveva comprati mille e fittiziamente rivenduti. A quel punto, nelle tasche di Nagar restavano, nei giorni migliori, 50 rupie (poco più di duemila lire, al cambio dell'epoca) con le quali tornava, a notte fonda, dalla sua famiglia di sette persone nella campagna a dividere un'altra notte aspettando che un colpo di tosse gli togliesse Gabriele Romagnoli la vita o, la giunta municipale, il lavoro. In quegli stessi giorni, invece, Bhakta Das Saha era un ambulante. Aveva 61 anni e per 44 aveva venduto le sue mercanzie sul marciapiede nella zona di Hatibagan: palle di naftalina, specchi per radersi, pettini, matite. Come molti suoi colleghi aveva messo insieme una specie di baracca dove tenere le merci n l'aveva in qualche modo ancorata al marciapiede. Le aveva anche dato un nome, Manjala, lo stesso della sua prima figlia. Con il reddito delle sue palle di naftalina Mveva cresciuto lei e altri due ragazzi. Ma in quell'inverno del '96 i governanti avevano deciso che gli ambulanti erano una vergogna per la città. I giornali locali, Telegraph e Statesman, pubblicavano fotomontaggi in cui si vedevano le strade in quel momento, strangolate e lordate dalle baracche, e quelle che sarebbero divenute un giorno, libere da quelle presenze, ampie e nobili. I politici dicevano che gli ambulanti erano uomini ricchi, in realtà intermediari di grandi proprietari di negozi. La voce popolare aggiungeva che, al calar del sole, smettevano di vendere paccottiglie e offrivano droga e prostitute. Bhakta fumava perplesso il suo bidi e rifaceva i conti, chiedendosi dove avesse sbagliato, se le affermazioni dei politici erano vere. Nel periodo migliore dell'anno, durante il mese e mezzo di feste propiziatorie agli dei hindu, aveva incassato 45 mila rupie, ma poi, pagati i fornitori di merci, l'elettricità, la manodopera, un aiutante che aveva assunto, gli erano rimaste cinquemila rupie (poco più di duecentomila lire). Non esattamente di che essere definito un «uomo ricco». Eppure nessuno ebbe compassione per lui la notte di dicembre in cui la polizia mandò i bulldozer a Hatibagan perché tirassero giù tutte le baracche che incontravano sul loro cammino, come avevano già fatto il 27 novembre intorno alla stazione di Howra. Se ne rimase seduto sulla strada con la sua famiglia a guardare le sue lamiere sfasciarsi, le sue palle di naftalina disiarsi. La più dispiaciuta fu sua figlia Manjala, ormai una donna, affezionata a quella catapecchia che portava il suo nome. Bhakta aveva vissuto abbastanza per farsi una ragione di qualunque cosa. Avevano promesso rimborsi per i materiali distrutti, nuove sedi per mercati di ambulanti in zone periferiche. Lui capi che, per quanto lo riguardava, tutto era finito. Si alzò e se ne andò, senza speranza. Venissero pure i capitali da Hong Kong, non sarebbero finiti nelle sue tasche. C'erano molti disperati come Bhakta e Nagar, rassegnati a diventarlo ancora di più, in quell'inverno del '96 a Calcutta. Ora che sono stati cancellati dalla faccia della città e con loro l'arretratezza che rappresentavano, potete vedere che il loro sacrificio non è stato vano. Ve lo garantisco da Calcutta, anno Duemila. Spero solo che quella che vi racconto non sia un'impietosa bugia. a storia di Nagar uomo cavallo che tirava i risciò nel lontano '96 è ormai soltanto un ricordo Come lo è il termitaio senza legge né ordine dove conduceva il suo lurido carretto 1 I Una strada di Calcutta l'uomo-cavallo dorme stremato sul suo risciò A sinistra un barbiere di strada a Calcutta A destra la stazione ferroviaria e il ponte Howrah