«Noi, ragazzi di Belgrado rivoluzionari per caso»

«Noi, ragazzi di Belgrado rivoluzionari per caso» Gli studenti che guidano la rivolta cantano le canzoni dei Beatles e invocano Savicevic «Noi, ragazzi di Belgrado rivoluzionari per caso» -'«Ili RITRATTO DI UNA GENERAZIONE UBELGRADO N tempo, fra l'inarrivàbile Petar Petrovic Njegos (poeta, «latin lover», perfino santo) ed un ondivago genio del calcio come Dejan Savicecic non ci sarebbe stata possibilità di confronto. Oggi invece dinanzi alla facoltà di filosofia la statua in bronzo del più grande fra i montenegrini continua a sedere nella posa del pensatore di Rodin, ma gli occhi sono coperti da una grande benda di carta. Non guardare, o eroe, le miserie dell'oggi. Negli stessi momenti il telegramma di Savicecic letto al microfono (uno sbrigativo «Sono con voi») infiamma gli animi e scatena ovazioni. Sono sempre più eccitati, gli studenti di Belgrado. Vivono come se nel registratore una videocassetta ripercorresse a scorrimento veloce la storia del '68. Oggi che la capitale sembra rifiutare la mano tesa di Milosevic (altre 150 mila persone in piazza nonostante gli aumenti delle pensioni, i soldi agli studenti, la diminuzione delle tariffe elettriche) alcune migliaia di ragazzoni si rendono conto di aver dato avvio a qualcosa di grande, forse troppo. Neppure in Occidente era accaduto che un movimento giovanile innescasse in pochi giorni un fenomeno cosi generale. Mai che una protesta djsorgamzzata finisse con l'occupare tanto spazio, e tanto potere. All'inizio a protestare era il cartello delle opposizioni. Il fatto che si chiami «Zajedno» (cioè «Insieme») autorizzava per definizione l'ingresso di altre forze. Ecco però che nel momento in cui gli studenti sono scesi in piazza la protesta è stata come risucchiata, monopolizzata. Vi si sono aggregati giornalisti, giudici, ministri: il responsabile dell'informazione, Alexandar Tijianic, fa sapere di aver rinunciato al ruolo di ministro in cruanto portatore di una «concezione liberale dell'informazione in Serbia». Vuk Draskovic, leader del cartello democratico ed immagine di un Cristo estratto dall'icona, oggi dice di rifarsi a Thomas Jefferson ed al Mahatma GL.idhi. Eppure è lo stesso etilista che tre anni fa gridava nelle piazze: «Tagliate anulare e mignolo a croati e musulmani, cosi saranno costretti a salutare la Serbia per il resto della vita». Il gesto di saluto di questa gente consiste in un «Tre» orgogliosamente esibito con le dita residue. Zoran Dijndijc, l'altro e più astuto capopopolo, è colui che tre anni fa calava a Pale per incoraggiare i «fratelli» di Bosnia all'aggressione. Adesso la protesta ha anche altri leaders, gli studenti. Per giorni, i lunghi giorni in cui nessuno capiva cosa stava succedendo, la ribellione dei serbi perbene è vissuta dei loro slogans, dei loro cartelli, della loro fantasia. Fantasia postmoderna, diremmo, poiché sembriamo tutti incapaci di definizioni diverse. Questi ragazzi mostrano un talento per lo slogan direttamente mutuato dalla pubblicità, nella loro visione stupide rime di trent'anni fa (quella fra «basco nero» e «cimitero», per dire) non trovano spazio. Fra gli studenti di Belgrado la cosa che colpisce è la capacità di rompere non con il passato, ma con la stupidità. Ce l'hanno con chi imbelletta il passato per amministrare il presente, riescono ad agganciarsi al disagio della gente comune. A volte marciano cantando canzoni dei Beatles, altre inni patriottici dei Karageorgevic («Arriva la guardia del Re. Ragazze di Belgrado, inginocchiatevi. Più tardi penseremo anche a voi...»). Rappresentano un potere, insomma, il solo potere emergente. E adesso devono trovare un leader. «Spegni la televisione, accendi il cervello». Se mai slogan ha rappresentato un momento, quello che attraversa una terra devastata dal delirio nazionalista prima che da povertà e gelo esprime il rifiuto di mille cose assieme. Da Belgrado a Nis, da Novi Sad a Kraguljevac i cortei non inchiodano soltanto le contorsioni stolide di tv e giornali che continuano a negare l'evidenza. Escludono la possibilità stessa che qualcosa possa cambiare senza che il regime tracolli. «Distruttori, noi? Abbiamo poche cose da distruggere ormai, o magari moltissime. Ma se la stessa gente che ha mandato i miei amici al macello oggi dice che dobbiamo difendere la serbità, io li mando affan...». La ragazza che parla sotto la statua di Njegos si chiama Vesna e non va più veloce degli studenti che la circondano a migliaia. Esprime uno stato d'animo comune a tutti i ventenni che occupano il centro della capitale. Ormai arrivano anche dalla provùicia, quella preistorica provincia serba che pare essersi svegliata. I poliziotti hanno provato a fermare i pullman: gli studenti sono arrivati in treno, o sulle auto noleggiate a poche lire da amici e tassisti, pronti anch'essi alla rivolta, per disperazione. Fanno quasi tenerezza, abbigliati in uno stile Anni Sessanta ulteriormente impoverito dal potere d'acquisto del dinaro. Ma è proprio contro questa povertà, che si rivoltano. Capiscono come sia stata provocata da un regime pronto a tutto, e per qualche anno perfino tramutata in mito. «Io studio legge - dice Vesna sono al secondo anno. Mi sto preparando non solo ad una carriera che scopro condizionata, sottomessa al potere, ma anche ad uno stipendio da fame. E' questa, la Serbia? La terra orgogliosa che ha resistito ad occupazioni secolari? No, questo oggi è solo un Paese di conigli: e noi forse non saremo leoni, ma neppure animali da pelliccia». C'è una cosa da tenere presente, questi ragazzi arrivano dopo una generazione che è stata costretta a scoprirsi guerrriera. Per loro fortuna, succedono di pochi anni agli studenti che nel '91, protestando nelle stesse strade, si trovarono contro i carri armati di Milosevic, e finirono in gran parte «volontari» sui fronti di Vukovar o di Bosnia. E' un po' come scoprirsi fratelli minori di gente schiavizzata dalla droga. Questa volta però c'è qualcuno con cui prendersela, per una volta l'irrefrenabile istinto che è fondamento e limite dell'anima serba sembra poter trovare uno sbocco civile. Ieri sulla «terrazza» di Belgrado la folla era guidata da Dragoslav Avramovic, fino a pochi mesi fa governatore della Banca Centrale. Un cortese, anziano signore che tentò di avvertire il regime come un capitano che segnali alla nave che si dirige a tutta forza contro uno scoglio. Fu dimesso. C'erano migliaia di «fuori corso», persone mature se non anziane, pronte ad appoggiare un movimento che la gente avverte fresco, e comunque fuori dai giochi polverosi del potere. Un movimento che deve trasformarsi in partito. «Con un leader? Non abbiamo leader», dice uno dei portavoce. Nessun capo, tutti compagni: eppure è troppo tardi. Il prossimo leader di Serbia verrà fuori da questi cortei. Giuseppe Zaccaria Vestono come negli Anni Sessanta non per moda ma per il crollo del dinaro Ovazioni per il telegramma del calciatore milanista «Sono con voi» Due immagini delle manifestazioni a Belgrado. In quella in basso una caricatura di Milosevic svestito con accanto una divisa da carcerato e la scritta «Rivestiamo Slobo?» (FOTO ANSA]