A Beirut la notte del Casinò di Alfredo Recanatesi

A Beirut la notte del Casinò A Beirut la notte del Casinò Riapre un simbolo della città distrutta dalla guerra doppi servLi da gran giocoliere intemazionale. Il vecchio commendal.or Borghi, quello che aveva fatto la fortuna di Varese e il boom dei frigoriferi, ci veniva al week end, a tentare i numeri della roulette. Raccontava lui stesso: «Ho detto al mio motorista: su andem a fare un giro». Il motorista era il suo pilota personale, e il giro era un volo di Un'immagine di Beirut prima della guerra civile quando era crocevia obbligato di sceicchi e miliardari provenienti da tutto il Medio Oriente e dall'Europa cinque ore filate dentro il sole. Joe Diverto, che ora canta al Summerland, se li ricorda tutti, il Felicino Riva, il Borghi, il Moratti. «Era un altro mondo, gente di una pasta che ora non c'è più». Oggi Joe canta Arbore e Fiorello, a quel tempo cantava «Marina» e Carosone. Gli sceicchi sauditi entravano al Casinò quando ormai era notte fonda e se ne andavano all'alba, sempre più leggeri di quando erano arrivati. «Ce n'era mio che verso le tre del mattino tirava in aria un paio di brillanti, e le ragazze erano fi pronte ad aspettare; lui si divertiva a guardare la zuffa feroce che ne nasceva sul pavimento, fra spintoni, gambe nude, e urla. Poi riprendeva tranquillo a puntare sul tavolo, ed erano 10 mila dollari per giro». La padrona del Bristol, una vecchia armena, grassa e avida, un giorno che era in vena di confidenze mi ha raccontato: (Arrivano qui il giovedì S3ra, si fanno una lunga passata di roulette, e poi se ne stanno per due giorni interi - giorno e notte - chiusi in camera, le porte sprangate, sperduti dentro un fiume di whisky e le cosce di un paio di ragazze. Ripartono la domenica, e hanno sempre gli occhiali scuri inforcati sul naso, a coprire le devastazioni dei bagordi». Ma arrivò la guerra civile, e distrusse il Saint Georges e il Phenicia, e arenò il porto che le navi di crociera per segretarie tuttofare ormai disertavano. Gli sceicchi conti¬ nuavano ad arrivare per qualche tempo ancora. Però ora non frequentavano più il «Casino du Liban» che se ne stava dall'altra parte della «linea verde», a Jounieh, tra i maroniti, in terra ormai proibita. Il Casinò era un vecchio edificio di evidenti pretese architettoniche, dove le memorie del neoclassico si mescolavano con dovizia agli esempi più travolgenti di kitsch orientale. I delfini delle piscine nuotavano dentro la luce dei neon, e c'erano dovunque candelabri, tappeti, tende damascate, splendidi lampadari a goccia di scuola veneziana. Il milieu beiruttino lo venerava come il tempio del successo, e al bancone del suo bar la sera non mancavano mai i signori delle grandi famiglie, i maroniti con la croce d'oro e la catena sul petto ma anche i sunniti e pure lo spilungone allampanato del vecchio Jumblatt. Si trattavano con sussiego e complicità, fino a quando scoppiò la guerra; poi si ammazzarono con un odio che aveva dimenticato ogni memoria passata. Il Casinò continuò a far girare le sue roulette anche quando la guerra stava devastando i vecchi souk, la place des Canons, la Galerie Seman. Ma Beirut era diventata due mondi che neanche si parlavano, e a puntare ora si ritrovavano solo gli uomini di Gemayel e di Chamoun; poi restarono solo quelli di Gemayel. Quando noi giornalisti arrivavamo a Beirut, andavamo sempre a fare un giro a Jounieh, per vedere le luci accese del Casinò. Era come credere che la guerra comunque non avrebbe vinto. Ma sapevamo di mentire a noi stessi, perché la guerra invece aveva stravinto e oggi Beirut è la periferia di Damasco. Rafik Hariri ci mette una montagna di quattrini, e la vecchia città di un oriente illusorio ma affascinante se ne sparisce sotto i denti delle ruspe, "giorno dopo giorno. Il «Casino du Liban» che riapre ora i suoi saloni dovrebbe darci l'illusione che questa lenta sparizione non sia vera, che il tempo in realtà si sia fermato sia anche tornato indietro. Ma è una menzogna, e il motorista di Borghi ora non vola più a Beirut. Mimmo Candito novre con le quali si tenta di raggiungerlo. E ciò avviene per il semplice motivo che in ogni manovra, insieme ai positivi effetti contabili che da essa ci si attendono, sono impliciti fattori che peggiorano la finanza pubblica perché comprimono l'attività economica, l'occupazione, la formazione del reddito. Se l'economia va male, da una parte si riduce la base imponibile dalla quale lo Stato preleva le imposte, le tasse, le contribuzioni sociali; dall'altra la spesa aumenta perché, indipendentemente dal suo ordinamento, 10 Stato sociale viene posto sotto pressione. E la spirale fa presto ad avvitarsi: più la gente vede un futuro incerto, più lesina sulle spese; le aziende licenziano o ricorrono alla cassa integrazione, comunque non investono se non per contenere i costi, cioè riducendo l'occupazione. I timori diventano una realtà che ne alimenta di nuovi e più cupi. Se si eccettua il periodo nel quale la svalutazione della lira ha consentito di trarre dalle esportazioni cospicui flussi di reddito, la storia di questi ultimi anni è di una continua compressione del benessere medio a fronte di benefici per la finanza pubblica esili e precari. Questa condizione è comune a tutta l'Europa, messa sotto stress da un processo di unificazione monetaria impostato su un tessuto di reciproche garanzie che ha soffocato le ragioni dello sviluppo, del benessere, dell'equità distributiva. In Italia, però, si avverte con una particolare pesantezza perché lo squilibrio da sanare è dovuto alla spesa per interessi. Gli interessi, pur corrisposti in misura tanto consistente, non generano domanda di beni e servizi; tanto meno compensano quella che viene tagliata dal contenimento di spesa pubblica o dagli inasprimenti fiscali che sono necessari per pagarli. E' così che, per contenere il disavanzo complessivo più elevato d'Europa, l'Italia è costretta ad ingigantire sempre più 11 suo avanzo primario, che è già il più consistente d'Europa. Solo che l'avanzo primario pesa direttamente sul sistema economico, sulla domanda, sugli investimenti, sull'occupazione; per contro, i benefici di una riduzione del disavanzo complessivo, se e quando fosse conseguita, sono lontani, incerti e comunque indiretti. Ogni manovra acuisce questo stato di cose, già per nulla roseo. Ma è la legge di Maastricht: o la si accetta, o si rimane fuori dall'Europa. Dunque, va accettata. Ma accettarla non significa e non significherà mai ratificarne una logica che appare sempre più aberrante. Alfredo Recanatesi

Persone citate: Arbore, Carosone, Chamoun, Gemayel, Jumblatt, Mimmo Candito, Moratti, Rafik Hariri