IL GOBBO DI HUGO di Gabriella Bosco

IL GOBBO DI HUGO IL GOBBO DI HUGO Come nel 1830 nacque il grande romanzo che oggi Walt Disney anima sullo schermo PARIGI UASIMODO è esistito davvero, dicono. Era un campanaro di Reims, Victor Hugo lo vide, tornò a vederlo, poi ancora, e ancora. Era attratto e affascinato dalla sua bruttezza. Era un disgraziato, gobbo, storpio, che al posto di un occhio aveva un'orribile escrescenza, parlava a grugniti, sembrava feroce. Ma quando si aggrappava alla corda per suonare le campane della -sua cattedrale, si trasformava. L'espressione del suo volto sembrava cambiasse, compariva una luce nello sguardo, e la sua gobba non era più una deformità, bensì sémplicemente una curva di quel groviglio inestricabile che si formava tra lui, la corda, il suono delle campane, la foga liberatoria e incredibilmente armoniosa del suo andare su e giù, inglobato in quel suono. Victor Hugo non poteva credere ai suoi occhi: un mostro bello. Nella sua mente il personaggio prese una nicchia, e vi rimase per alcuni anni. Intorno al 1830, assillato dall'editore cui aveva promesso un romanzo medievale, Hugo dovette poi buttare giù in fretta e furia Notre-Dame de Paris. Il libro per fortuna era già tutto nella penna, Hugo si comprò un maglione lungo sino ai piedi, si chiuse nella sua stanza fredda, e scrisse. Quasimodo divenne allora il gobbo di Notre-Dame. 0 meglio, il gobbo di Reims diventò Quasimodo. Hugo immaginò di averlo visto nella cattedrale di Parigi, e fu per lui impossibile da allora entrare in Notre-Dame senza scorgerlo in qualche anfratto. Da Reims lo fece arrivare che era ancora piccolo, neonato mostruoso lasciato dagli zingari a una mamma distratta, la Chantefleur, al posto della sua bellissima bambina Agnès. In mano agli zingari, Agnès sarebbe diventata la dolce Esmeralda. Il piccolo nero mostro, invece, raccolto da un religioso caritatevole e portato a Parigi, sulla soglia di Notre-Dame, nella speranza che un cuore buono si prendesse cura di lui, venne adottato dall'arcidiacono della cattedrale, don Frollo, che il cuore l'aveva buono solo in piccola parte. L'arcidiacono, come tutti i personaggi del romanzo salvo forse la bellissima Esmeralda finché fu pura, covava in sé un misto tormentoso di bontà e cattiveria, di altruismo e egoismo. E anche lui, come gli altri personaggi, altro non era che un burattino i cui fili solo la fatalità poteva muovere. Quasimodo a suo modo si affezionò a quello strano monaco che gli faceva da padre. Ma soprattutto si affezionò alla cattedrale, che divenne per lui come un guscio per la chiocciola, la corazza per la tartaruga. Nei venti anni che precedono l'inizio del romanzo (6 gennaio 1482), fece sua ogni pietra dell'immenso edificio, e benché storpio diventò agilissimo, simile a una scimmia o a un camoscio, nel saltare e arrampicarsi: in cima alle torri, sui cornicioni, tra le sculture, quasi fosse una di quelle creature diaboliche che sprizzano fuori dai muri della cattedrale, pietra fattasi vivente. Le quindici campane divennero le sue sorelle. Marie, la maggiore, campana della torre meridionale, e via via tutte le altre. Lui le sapeva animare come nessun altro. Diventò sordo, a furia di aizzarle perché cantassero a squarciagola la loro gioia contro le malvagità del mondo esterno. Quel mondo che per Quasimodo era nemico, individui pronti a calpestarlo per la sua diversità. Sordo a tutto, salvo che al suono di quelle sorelle, compagne, amiche, la sua diventava la più bella bruttezza mai vista, nei giorni di festa solenne quando l'arcidiacono gli ordinava di dare il via al concerto. Ma Quasimodo smise un giorno di suonare le campane. La luce che Victor Hugo aveva visto da ragazzo brillare nello sguardo del gòbbo di Reims, si affievolì. Sul corpo disgraziato del campanaro si diffuse tanta tristezza, mista a dolcezza. Nel silenzio della cattedrale, Quasimodo divenne una creatura opaca. Si era innamorato della zingara Esmeralda. La sua malinconia divenne incurabile. Animo sensibile chiuso in un'apparenza di bestialità, principe azzurro che nessun incantesimo poteva liberare dalla schiavitù dell'orrido. Quasimodo rivelò tutta la sua bellezza morale nell'adattarsi a essere, dell'amata, dopo averla salvata una prima volta dal patibolo per stregoneria, guardiano fedele e sottomesso. Le diede rifugio nell'edificio materno, NotreDame, le diede il suo giaciglio e il pane con cui si nutriva. Rispettò i sentimenti della fanciulla, che poteva avere per lui solo riconoscenza. Non potè difenderla sino alla fine, preso d'assedio dai paltonieri della Corte dei Miracoli - che volevano salvare Esmeralda, ma Quasimodo lo ignorava - e dai soldati del Re, che invece volevano prenderla per giustiziarla. Questa im¬ potenza, figura della sua impotenza maggiore, quella imposta dal destino dell'apparenza che condanna, Quasimodo volle espiarla morendo, stretto alla spoglia di colei che non aveva potuto avere da vivo. Un abbraccio macabro, ma simbolico: la vita toglie, la morte rende. C'è una salvezza nell'eternità. Quasimodo, però, non è solo il campanaro di Reims e il gobbo di Notre-Dame. E' anche una delle visioni di Meryon (opportunamente, il tascabile Einaudi or ora uscito lo ricorda in copertina). Poeta disegnatore, Meryon immaginò Parigi popolata di presenze inquietanti. Le sue vedute della città, precise nei dettagli e realistiche nelle architetture, si animano di mostri alati, vascelli volanti, vampiri pensatori... Quasimodo è la personificazione di una di queste presenze, genius loci della cattedrale. Purtroppo Baudelaire, per negligenza o stanchezza, non volle scrivere le dida¬ scalie per i disegni di Meryon. Se l'avesse fatto, come gli era stato chiesto dall'amico editore PouletMalassis, avremmo anche il suo volto del gobbo di Notre-Dame. Quasimodo continua a esistere anche oggi. Non solo nello scherno di un Ionesco che lo disprezzò per fargli un complimento. Anche nel ricordo, o meglio nel rimpianto, nel desiderio di tutti coloro che vorrebbero ancora vederlo arrampicarsi su per le torri della cattedrale, o sentirlo suonare le quindici campane sorelle. «Per chi sa che Quasimodo è esistito, Notre-Dame oramai è deserta, inanimata, morta», scrive Hugo. «Sentiamo che ne è scomparso qualcosa. Quel corpo immenso oggi è vuoto; è uno scheletro; l'anima lo ha lasciato, ne vediamo l'abitazione, nulla di più. E' come un cranio dove ancora si distinguono le orbite, ma ormai è privo di sguardo». Gabriella Bosco Una rivisitazione

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