RICOSTRUIRE NORIMBERGA di Domenico Quirico

RICOSTRUIRE NORIMBERGA RICOSTRUIRE NORIMBERGA L professor Telford Taylor, professore di diritto internazionale alla Columbia University, pubblico ministero in numerosi processi contro criminali di guerra tra il '45 e il '49, lo aveva capito subito: «A poco a poco ci rendiamo conto che, giudicando e condannando esseri umani in base ai principi di Norimberga, ci siamo assunti un compito davvero gravoso». Talmente gravoso che gli americani, quando sul banco degli imputati finirono il tenente Calley e i «bravi ragazzi» del Vietnam, passati dalla normalità del college alla strage di My Lai, se la cavarono, ipocritamente, con sentenze miti. Talmente gravoso che nessun tribunale ha mai osato chiedere conto a Poi Pot e ai suoi neri pretoriani; o agli hutu che hanno fatto a pezzi, artigianalmente, un milione di loro fratelli-nemici tutsi. Talmente gravoso che davanti ai giudici del tribunale internazionale dell'Aia, ambizioso replay di Norimberga, non sono arrivati i veri responsabili del carnaio nell'ex Jugoslavia, ma smorti manovali del massacro; alcuni, per di più, scopertamente utilizzati come imputati-provocatori. Per tutte queste terribili ragioni non è davvero archeologia giudiziaria ripercorrere le udienze di quel processo che dal 20 novembre del 1945 al primo ottobre del '46 mise alla sbarra la Germania. Anzi, significa immergersi, dolorosamente, nel bruciante presente. Per raccontare il processo di Norimberga bisogna scalare un'impervia montagna di carta: gli atti, infatti, ingombrano ventidue volumi (più altri venti di annessi); la sola accusa seppellì gli imputati (e la giuria) sotto dodicimilaseicentotrenta documenti. Giuseppe Mayda non si è spaventato e nel suo Processo al Terzo Reich risale diligentemente le quattrocentosedici udienze di questo processo alla poco onorevole Storia del nostro secolo con il vigore e la Iu¬ te inferiori, dovevano essere sterminate», scrive Gianni Moriani. «Su questi fondamenti ideologici venne pianificato il genocidio ricorrendo alle stesse tecniche impiegate dai turchi per annientare gli armeni, con l'aggiunta, per la prima volta nella serie storica dei genocidi, delle potenti tecnologie industriali rese possibili dai prorompenti sviluppi della scienza e della tecnica avvenuti tra la fine dell'Ottocento e l'inizio del Novecento. Il genocidio nazista di ebrei e zingari acquistò una dimensione spaziale e quantitativa prima d'allora sconosciuta: sull'altare di una utopia barbara, la realizzazione dello Stato razziale, furono immolati milioni di vittime...». La strategia sanguinaria venne realizzata con il concorso dei quattro pilastri del Terzo Reich: il partito, l'esercito, la burocra¬ zia e l'industria. Dall'esercito la macchina della distruzione mutuò la disciplina, la precisione militare e l'insensibilità. L'amministrazione statale trasmise alle altre gerarchie l'ineluttabilità della propria pianificazione e la minuziosità della burocrazia. L'industria acuì l'insensibilità con l'ossessione della contabilità e l'esasperazione del risparmio e del recupero dei materiali, oltre che nell'efficienza produttiva dei centri di sterminio. E il partito conferì all'intero apparato l'«idealismo», il «senso della missione» e l'idea di partecipare all'«edificazione della Storia». Gianni Moriani si impegna a raccontarci la spaventosa impresa dei lager sotto tutti i punti di vista, punto economico compreso e anzi dominante rispetto agli altri. In una pagina memorabile, Primo Levi aveva ripor- cidità di un reportage di classe. Alla fine del libro restano alcune incontrovertibili verità. Norimberga fu un processo di vincitori, e alcuni loro nascondevano nell'armadio scheletri altrettanto terribili di quelli dei vinti. Non a caso Stalin, che di processi se ne intendeva, nel '43 aveva proposto di evitare seccature giudiziarie fucilando, come punizione collettiva, cinquantar": a ufficiali e tecnici t • <• ,\ -.scutibile fu la deck b ai * ormare il collegio dei giudici solo cr>'< rappresen¬ tanti dei vincitori. Sarebbe stato più giusto ricorrere a Paesi neutrali o, addirittura, scegliere qualche tedesco. C'erano stati contatti, infatti, con l'ex Cancelliere Bruiiing, docente ad Harvard, rispettabile esponente della Germania che non aveva detto sì a Hitler. Alla domanda se davvero un tribunale tedesco avrebbe condannato Streicher, Bruhing rispose: «Perché no? Era già stato condannato otto volte prima che i nazisti prendessero il potere». Ma nonostante qv^sto lo la- tato il cinico ammonimento delle SS ai loro prigionieri: «Nessuno di voi rimarrà per portare testimonianza, ma, se anche qualcuno scampasse, il mondo non gli crederà. Forse ci saranno sospetti, discussioni, ricerche di storici, ma non ci saranno certezze perché noi distruggeremo le prove insieme con voi. E, quando anche qualche prova dovesse rimanere, e qualcuno di voi sopravvivere, la gente dirà che i fatti che voi raccontate sono troppo mostruosi per essere creduti: dirà che sono esagerazioni della propaganda alleata, e crederà a noi che negheremo tutto, e non a voi. La storia dei lager saremo noi a dettarla...». Purtroppo, ci sono stati tanti che non hanno voluto credere, e tanti altri che hanno preferito fare come se nulla fosse successo. E' sacrosanto, dunque, che vi sia qualcuno, come Gianni Moriani, in grado di continuare a lavorare per ristabilire la verità e ricostruire pezzo per pezzo pianificazione e tecnica del genocidio nazista. Perdonare si può anche, ma dimenticare no, non si può proprio. Mi scrive un mio coetaneo lettore di La Stampa: «Sono il solito ex deportato nel campo di sterminio di Dora: ho letto che l'assassino Priebke dice che soffre per la sua famiglia. Non si ricorda più quante famiglie ha fatto soffrire?». Albino Moret, 0155 Lager Dora. 0155 ci ha già raccontato la sua storia. E ha collaborato, grazie alla segnalazione del nostro giornale, al gran libro di Ricciotti Lazzero, Gli schiavi di Hitler, Mondadori, 1996. Albino Moret, nato a Cison di Valmarino, in provincia di Treviso, operaio della Fiat Aviazione a Torino, alpino della divisione Taurinense, arrivò a Dora il 13 ottobre 1943. Gli fu dato il numero di matricola 0155 e fu assegnato al kommando «Ammoniak». Lavorò in galleria come minatore con turni di 12 ore: E con straordinario: «Quando si finiva il turno di lavoro in galleria bisognava caricare i compagni morti nel carretto e portarli nei forni crematori: erano sempre dai 40 agli 80, impiccati e non...». Oreste del Buono Um'immagine del processo di Norimberga. In alto, a sinistra l'entrata di Auschwitz sciarono tranquillo ad Harvard. Eppure è altrettanto certo che quel processo doveva essere celebrato: perché solo così il concetto di «crimini contro l'umanità» potè essere scritto, nero su bianco, su un codice. Certo appena 40 anni dopo quella sentenza, in Argentina, promulgarono una legge che assolveva i militari assassini, in aperto contrasto con i principi di Norimberga. Ma almeno è rimasta la vergogna. Domenico Quirico