UN PORTOGHESE IN ANGOLA

IL CONSIGLIO IL CONSIGLIO di Umberto Piersanti E9 un'atmosfera livida, corrusca, quella che s'incontra nell'ultimo libro di Roberto Carifi, // figlio Caca Book, 1995). Un paesaggio non italiano, pianure e cieli di una qualche emblematica terra d'Occidente, sicuramente posta a Nord delle Alpi. L'ansia della luce rimane, però, un'aspirazione costante: e la luce, talora, sembra essere raggiunta e fatta propria. Momenti di estatica pienezza, sempre estremamente incerti e difficoltosi, s'intrecciano ad una trama di lacrime e dolore. Ma la speranza resiste, comunque, al gelido vento che soffia da settentrione. E' una speranza di tipo latamente religioso, che rifiuta, però, ogni dimensione confessionale, ma che, tuttavia, si colloca sotto il segno della Croce. Può finire qui! C'è un figlio che s'aggira disperato e tenace tra le macerie e che continua a cercare anche quando nell'azzurro la stella-cometa è assente: «In cielo non vide la stella, / non vide la luce del più luminoso». E nel protagonista di un romanzo l'autore riversa se stesso, bisogna dire che Cathleen Schine, esponente dell'establishment letterario di Manhattan, si è trattata benissimo con la Helen che vive l'avventura raccontata nella «Lettera d'amore». Pensate, una quarantaduenne in piena forma, anche grazie al jogging e alle nuotate nell'Atlantico, reduce da un divorzio soft con un uomo che è poi diventato ricchissimo e che non le pone ostacoli di alcun genere; con una simpatica e intelligente figlia undicenne, che per di più passa l'estate al campeggio, levandosi convenientemente di torno; con una madre eccentrica e brillante sempre in giro per il mondo; con residenza in una di quelle deliziose, civili cittadine statunitensi sul mare, a conveniente distanza da metropoli come Boston e New York; e col lavoro ideale per chi abbia la passione della lettura, librala padrona del proprio esercizio e consulente di persone che con i propri gusti le confidano storie di vita per le quali ella nutre una serena curiosità. Se non bastasse, Helen è anche un'ebrea fiera di esserlo che però tutti scambiano per anglosassone . protestante purosangue, con cc0.iome che comincia per Mac (come dire la botte piena e la moglie ubriaca); e per finire, ha una lietissima vita sessuale della quale è in perfetto controllo - dopo il divorzio andò a letto con chi voleva spassandosela un mondo, ora vive un periodo di tranquilla indipendenza senza alcuna fretta di mettergli fine. La vicenda che con garbata astuzia la sua burattinaia ci propone"viene-innescata- dal* l'arrivo nella fluviale posta di Helen di una rovente missiva d'amore senza busta e senza chiara specificazione né di mittente né di destinatario: chi deve riceverla è apostrofato come Capra, chi si firma si autodefi¬ nisce Montone d'inglese, «Ram», è per la verità meno greve). Helen non è nemmeno sicura che la lettera sia per lei, ma oltretutto grande frequentatrice e raccomandatrice di epistolari com'è, la legge con partecipazione, e anzi ne è talmente disturbata, suo malgrado, da farla a pezzi, salvo poi recuperare i frammenti con molta pazienza e molto scotch. Questa lettera, la cui paternità e la cui vera destinazione apprenderemo solo all'ultima pagina del libro, scatena una reazione nell'ordinata esistenza di Helen, non fino al punto di sconvolgerla - è una-donna troppo forte e troppo saggia - ma, diciamo, fino a quello di consentirle di concedersi un capriccetto, che poi cresce fino a diventare un piccolo amore, oggetto uno studente ventenne figlio di amici, che passa le vacanze lavorando nella libreria, e al quale la datrice di lavoro raccomanda di leggersi bene «Chéri» di Colette (non però «Le diable au corps» di Radiguet) per restare coi piedi sulla terra. La fine delle vacanze col ritorno della figlioletta, unito alla visita della madre (una Rosalind Russell in «Zia Marne») e alla necessità anche per il ragazzo di tornare agli studi mostrerà peraltro a Helen che controllare tutto non è sempre possibile neanche a chi ha gli occhi aperti come lei... Il libro si avvale di un ambiente assai piacevolmente evocato, sia in senso geografico - il piccolo pulitissimo centro della Nuova Inghilterra (immaginiamo), vetrina dell'America migliore, quella ancora a misura d'uomo - sia intellettuale, con i richiami ai buoni, succosi volumi e volumetti esposti nelle varie zone della bottega di Helen, e che in qualche modo fanno parte della vicenda; e l'idillio, visto dalla parte di lei, è condito col giusto dosaggio di spregiudicatezza, sentimentalismo e ironia. Il risultato, che sarà certo apprezzato dai frequentatori e soprattutto dalle frequentarne! del genere, è fra le altre cose un Adelphi da raccomandare a coloro che gli Adelphi consueti intimidiscono, che così potrebbero rompere il ghiaccio. Masolino d'Amico COM'È'AZZURRO L'ORRORE Di Stefano e un lento suicidio AZZURRO, TROPPO AZZURRO Paolo Di Stefano Feltrinelli pp. 146. L. 23.000 AZZURRO, TROPPO AZZURRO Paolo Di Stefano Feltrinelli pp. 146. L. 23.000 azzurro, troppo azzurro di Paolo Di Stefano, un abilissimo romanzo, uno dei più sapientemente costruiti fra quanti ho letto da alquanto tempo a questa parte. H titolo è tratto da una canzone di Paolo Corite, resa famosa dà Celentano, che è una chiave di lettura, non soltanto nel senso che ritorna di pagina in pagina come sottofondo continuo in quanto il protagonista, chiamato semplicemente Rizzo, la ascolta o se la ripete senza interruzione, ma perché costituisce il segno esteriore del procedimento compositivo del romanzo, per minimi spostamenti e lungo un ritmo di prosa che è fondamentalmente musicale e finisce con il portare con sé come sul filo di una corrente i fatti, le azioni, i pensieri di Rizzo e dei pochi altri personaggi; la ragazza Roberta con cui Rizzo ha una relazione, il padre e la madre della bambina Paolina, per i quali Rizzo ha concepito un odio assoluto, come pure per altre due persone con cui ha avuto rapporti di lavoro. Il ritmo mirabilmente suasivo della narrazione si avvale di un altro rumore di fondo, che è quello della televisione, costantemente accesa, con i telegiornali, le battute delle trasmissioni erotiche, la pubblicità. Nella descrizione dei luoghi, degli ambienti, Paolo Di Stefano Una canzone di Conte per l'ultima notte di Rizzo, «collezionista» di efferati assassinii delle azioni dei personaggi Di Stefano si serve, profondamente e spesso genialmente reinterpretandoli, dei modi dell'oggettività assoluta dell'écoZe du regard. Spazio e tempo sono ridotti al nummo nella narrazione, anche perché tutto il romanzo non è che il resoconto dell'ultima notte di Rizzo, che ha deciso di uccidersi, soffocandosi dentro un sacchetto di plastica, con cui gira sempre, ogni tanto mettendoselo in testa quasi come per fare la prova del suicidio. Di tutto quello che, entro questo ritmo continuo di parole, accade, non ci sono plausibili motivazioni: perché Rizzo voglia uccidersi, perché compri un kalashnikov e con questo massacri il padre di Paolina, Paolina e la madre, e un altro datore di lavoro con la moglie, perché sia venuto via da casa, dalla Sicilia, abbandonando la madre, di tutti questi atti non sappiamo le ragioni. Roberta abbandona a un certo punto Rizzo, ma continua a scri¬ vergli lettere che l'uomo non apre nemmeno, poi finisce a sua volta massacrata da un maniaco. Prima della notte decisiva del suicidio Rizzo va a cercai-si una prostituta, se la porta a casa, poi, mentre la ragazza dorme e il televisore è acceso, Rizzo si chiude intorno alla testa il sacchetto di plastica. Così la ragazza lo trova il giorno dopo, quando si sveglia; e il romanzo si conclude sul gesto di pietà della ragazza, che toglie dal capo di Rizzo il sacchetto di plastica, che servirebbe a identificarlo pome l'autore degli efferati assassini, perché è stato notato un uomo che girava intorno ai luoghi dei delitti con un sacchetto in testa, e porta via dall'armadio dove Rizzo ha raccolto i ritagli di cronaca di fatti di sangue o di violenza particolarmente feroci o singolari, le buste che riguardano Roberta e Rizzo stesso, nella quale ultima sono gli articoli sugli omicidi. Non c'è nessuna relazione fra Rizzo e le azioni che compie, se non per l'ossessiva mania della raccolta e della catalogazione dei ritagli, e per l'altra costanza nel riraccontare tali vicende con particolare efficacia. A questo punto, nasce il sospetto che Rizzo sia, in fondo, un personaggio allegorico: lo scrittore d'oggi, che si trova alle prese con la fitta enormità della violenza quotidiana, e ne resta prigioniero e affascinato, ma anche distrutto dalla visione, che gliene deriva, dell'orrore del mondo. Non gli rimane, allora, che cercare di mettere un termine a tale violenza e crudeltà: la distruzione del mondo e, correlativamente, la propria autodistruzione. Gli armadi pieni di ritagli restano come indizio di ciò che Rizzo è stato e ha fatto. Ma il filo di estrema pietà di una prostituta rende tutto vano, e fatti e azioni restano senza ragione, disperatamente. Giorgio Bàrberi Squarotti UN PORTOGHESE IN ANGOLA Antunes, la piaga del colonialismo IN CULO AL MONDO Antonio Lobo Antunes Einaudi pp. 197 L. 24.000 CONOSCIUTO al pubblico italiano, Antonio Lobo Antunes è uno dei principali esponenti della narrativa lusitana contemporanea: autore di più di dieci romanzi, tradotto in dieci lingue, candidato al Premio Nobel e vincitore, quest'anno, del Premio France Culture. In culo al mondo è la sua prima, e finora unica, opera tradotta in italiano, e fa parte di una trilogia composta, inoltre, da: Memoria de Elefante (romanzo d'esordio dello scrittore, 1979) e Conhecimento do Inferno (1980). A questa prima trilogia seguono: Explicaqào dos Pàssaros (1981), Fado Alexandrino (1983), Auto dos Danados (1985) e As Naus (1988, di prossima pubblicazione presso Einaudi), ed una seconda trilogia: Tratado das Paixóes da Alma ( 1992), A Ordem Naturai das Coisas ( 1992) e A morte de Carlos Gardel (1994, anche questo romanzo sarà tradotto da Einaudi). Un'imponente Africa rossa su sfondo azzurro stampata sulla copertina lascia chiaramente intuire lo spazio geografico, «in culo al mondo», in cui si svolge il romanzo. Nel libro si parla di Angola, terra della fine del mondo dove un'intera generazione di portoghesi ha vissuto, non più di vent'anni fa, l'esperienza dura delle guerre coloniali africane. In culo al mondo è la storia di un uomo che arruolato poco prima di sposarsi, parte per l'Angola tra la disperazione dei famigliari e l'angosciosa tristezza dell'abbandono del proprio Paese. La prima tappa è Luanda, la capitale dell'Angola, in attesa di proseguire verso la zona di combattimento. Da Luanda verso Nova Lisboa, di lì verso la guerra, in mezzo a orizzonti sconfinati e inverosimili, a Luso, dove «a poco a poco quello a cui mi ero abituato durante tanti anni si allontanava da me: famiglia, conforto, quiete, il piacere stesso delle scocciature senza pericolo, delle malinconie soavi, così piacevoli quando non ci manca niente». E da Luso verso le Terre della Fine del Mondo, attraverso piste di terra sabbiosa, Lucusse, Languinga, il deserto uniforme e ripugnante dall'Est, villaggi indigeni cinti di filo spinato tutt'intorno ai prefabbricati delle caserme, il silenzio cimiteriale delle mense, gli alloggiamenti di zinco: «Scendevamo verso le Terre della Fine del Mondo, a duemila chilometri da Luanda, gennaio volgeva alla fine, pioveva, e andavamo a morire, andavamo a morire e pioveva... e io... ho iniziato il doloroso apprendistato dell'agonia». La storia di guerra è interrotta dal ritorno in patria del protagonista per la nascita della figlia e poi di nuovo in viaggio verso l'Angola per finire a raccontare ad una donna qualsiasi, incontrata in un bar, la sua sconfitta personale, la sua drammatica esperienza della guerra. In culo al mondo è anche lo spaccato di una pagina della storia europea drammatica e sanguinosa; la vicenda di una sconfitta collettiva. E' la storia della guerra coloniale in Africa voluta dal dittatore S a lazar e combattuta dagli Anni Sessanta fino al 1974 contro i movimenti di liberazione della Guinea, del Mozambico, dell'Angola. Il Portogallo fu il primo Paese europeo a colonizzare l'Africa e fu anche Tul¬ li dittatore portoghese Salazar timo a lasciarla cinque secoli dopo. Per il Portogallo e per i portoghesi la guerra coloniale è un'esperienza drammatica ancora viva nell'immaginario e nella coscienza di un'intera generazione e il libro di Lobo Antunes è testimonianza diretta di questo dramma, di questa coscienza: «Eravamo dei pesci, siamo dei pesci, siamo sempre stati dei pesci... spiati dai mille occhi feroci della Polizia politica, condannati al consumo di giornali che la censura riduceva a lodi malinconiche con l'odore di sacrestia provinciale del regime, e alla fine scagliati nella violenza paranoica della guerra, al suono di marce bellicose e dei discorsi eroici di coloro che restavano a Lisbona, combattendo, combattendo coraggiosamente contro il comunismo nelle riunioni parrocchiali, mentre noi, i pesci, morivamo in culo al mondo». Giuliano Sorta 4 >