Gli orfani del Grande Nemico di Massimo Gramellini

Gli orfani del Grande Nemico Gli orfani del Grande Nemico 77 corteo non può sfogarsi contro il governo TRA SLOGAN E E ROMA adesso che si sono ripresi la piazza violata dai tacchi a spillo del Polo cominciano ad accorgersi che qualcosa non va. Si guardano intorno come a cercare un assente, ma in apparenza non manca nessuno. C'è il nemico di classe - «i padroni» -, la bandiera del Che che sventola davanti all'impermeabile firmato di Bertinotti, i tamburi e i campanacci, i bambini vestiti da operai, i segretari dei partiti di sinistra che camminano dietro i sindacalisti, il regista da corteo Citto Maselli, l'extracomunitario buono che vende gli ombrelli, gli slogan sulle tasse che fanno rima con masse, il Tg3 che riprende un urlatore col pugno chiuso: «Lot-ta du-ra sen-za pa-ura». Soprattutto ci sono loro, i metalmeccanici, «poveri cristi» come li ha chiamati Romano Prodi con afflato oratoriale ma scarsissimo rispetto. «Poveri cristi» da un milione e mezzo al mese, che per averne altre duecentoquarantamila sono tornati sulle strade di Roma dopo sei anni e ti puntano addosso occhi cerchiati dalla sveglia precoce e dalle preoccupazioni: «Duecentoquarantamila. Non cambierebbe molto, ma forse qualcosa. Ormai tutto è diventato un lusso: anche per mangiare una pizza devo fare il preventivo». Ci sono tutti, eppure manca qualcuno. Che cosa sfugge al richiamo della solita parata? La finta bara col cadavere della Confindustria? Sta entrando in piazza fra gli applausi. La studentessa emozionata che propone «un patto fra generazioni»? E' appena salita sul palco e fra poco parlerà. Gli studenti che fraternizzano con gli operai gridando: «Uniti nella lotta» come i loro padri trent'anni fa? Sono già in fondo a via Cavour. Come Bertinotti che esalta «il protagonismo delle masse» e D'Alema che si tuffa dentro il popolo sforzandosi di farselo piacere, Ecco, è laggiù, più teso nello sforzo che mai. Forse manca la t-shirt di Lenin? Figuriamoci, c'è persino quella di Stalin. Al banchetto che la vende fanno la fila, non per Stalin, ma per i biglietti della lotteria: delusi da troppi «gratta e vinci» elettorali, i «poveri cristi» preferiscono aggrappare quel che resta dei loro sogni a una botta di fortuna. Un sintomo dei tempi, come il dilagante effetto «Carramba che sorpresa», forma di rimbambimento retorico assai diffusa, direbbe Bertinotti, nelle società del capitalismo avanzato. Consiste in una sorta di compulsione all'abbraccio, nell'irrefrenabile bisogno di esibire platealmente sentimenti so¬ spetti. Massimo D'Alema scompare fra le braccia di Bertinotti e sarebbe una notizia se non fosse che subito dopo il compagno Fausto, sulla scia dei recenti abbracci con bacio a Fidel, la banalizza stritolando chiunque altro gli capiti a tiro: Trentin, Sabattini della Fiom e anche D'Antoni, il quale a sua volta attira a sé come due pargoletti Sabattini e Angeletti della Uilm. Per non restare con le mani in mano, Cofferati è costretto a stringersi al cuore la testa del paroliere Mogol. Neanche gli abbracci riempiono il vuoto. Una sensazione impalpabile. Che sia la mancanza della «diretta tv», richiesta e non concessa per la prima volta? Tanto bastano e avanzano i tg, con i loro inviati entusiasti che elogiano gli slogan «creativi, ironici, fantasiosi e polemici» (Tgl), danno in tono perentorio la linea politica («La manifestazione è perfettamente riuscita!», Tg3) e fanno rullare i tamburi del tifo nel tg regionale: «E' come ai vecchi tempi! I metalmeccanici si sono riappropriati della loro piazza». Magari il disagio nasce proprio da lì: dalla perdita di identità di piazza San Giovanni, operaia da sempre, che due sabati fa si è intasata di moderati che questo corteo chiama «padroni e fascisti» con la stessa ottusa semplificazione con cui quell'altro chiamava loro «comunisti!». Anche questa, però, è una sensazione superficiale, semmai è vero il contrario: la riappropriazione della piazza si traduce in un'iniezione di orgoglio e di spavalderia, quasi da lotta di classe: «Loro marciavano in pelliccia, noi perché moriamo di fame». «Ci provasse Berlusconi a vivere in quattro con un milione al mese!». «A Schumacher hanno dato 42 miliardi. E a noi rifiutano duecentomila lire». Arrabbiati il giusto, insomma. Allora cos'è che non va? I fischietti sibilano, i sindacalisti intimano, i politici auspicano e la musica va: tamburi, balli, scope danzanti come giavellotti, canzoni, persino «Il mio canto libero» del moderatissimo Battisti e un ennesimo riadattamento della macarena, già ballata a sinistra dal ministro Rosy Bindi. Un momento, ecco cosa manca. Il governo. La protesta contro il governo. Non è la prima volta che «i poveri cristi» hanno un presidente del Consiglio che li compatisce. Ma è la prima volta che non lo attaccano nei cartelli e negli slogan, che non marciano contro di lui. La prima volta in cinquantanni che i loro partiti di riferimento non sono all'opposizione, ma nella maggioranza, quando non addirittura al governo. E adesso stanno lì, in mezzo a loro, a stringere mani, a firmare autografi, a promettere con l'aria di chi sa e finalmente può: «Il governo deve intervenire e interverrà» (D'Alema), «Fra metalmeccanici e padroni il governo non deve mediare, ma schierarsi» (Bertinotti). I «poveri cristi» applaudono, ma la scomparsa del solito nemico li lascia esterrefatti e forse un po' orfani. La destra ha espropriato la piazza e la sinistra il bersaglio grosso di tutte le rabbie: il governo. A loro resta lo stipendio: un milione cinquecentotrentamila lire al mese. E sempre meno persone con cui prendersela. Massimo Gramellini Ai «poveri cristi» non restano bersagli con cui prendersela Pietro Larizza (Uil), Sergio D'Antoni (Cisl) e Sergio Cofferati (Cgil) con Fausto Bertinotti alla manifestazione

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