Il gioco delle copie di Carlo Grande

Il gioco delle copie Il gioco delle copie Calvesi: ma l'unico autentico l'abbiamo noi A NTON1J Paolucci, Soprintendente per i Beni artistici e storici di Firenze ed ex ministro dei Beni culturali, è tassativo: «Il Bacco del Caravaggio ha alle spalle una letteratura antica e solidissima. Anzi, tutti e tre i nostri Caravaggio sono affidati a pedigree antichissimi e indiscutibili. Chiunque può dire che la Gioconda vera non è quella del Louvre ma quella che la nonna ha sopra il letto. Si tratta soltanto di provarlo». Di Santo Cardamone, inoltre, non ha mai sentito parlare. Anche il critico Maurizio Calvesi non sa chi sia il restauratore. Ma sa che Longhi, quando scrisse le frasi citate dagli inglesi, aveva 18 anni: «Quindi era solo agli inizi della sua carriera, sarà stato uno dei suoi primi articoli. E in seguito ha sempre considerato il Bacco autentico. La notizia londinese, dunque, sembra poggiare sulle stesse acrobatiche basi della fuga di Caravaggio dalle segrete di Castel Sant'Angelo: discesa delle mura appeso a una corda («funibus scalando dictum castrum») e approdo, in barca, dopo giorni di navigazione, a Siracusa. Il mercato delle copie, d'altra parte, è un ginepraio nel quale si avventurano in molti. «Fino a qualche anno fa - spiega Calvesi - nessuno sospettava che il Caravaggio potesse avere una bottega. Oggi si comincia a sospettare abbia avuto qualche aiuto. Ma non era certo un pittore che fa¬ ceva lavorare la bottega e poi firmava». Come Rembrandt, ad esempio: nell'ateZier del pittore olandese spesso gli allievi dipingevano quadri che poi venivano venduti come autografi del maestro. Rembrandt stesso, naturalmente, incoraggiava l'imitazione: dello stesso Autoritratto, ad esempio, esistono tre diverse copie e gli esperti continuano a chiedersi se una è di Rembrandt o se l'originale è andato perduto. Un anno fa il Metropolitan Museum decise di esporre fianco a fianco, veri o falsi che fossero, i capolavori del grande artista. Una mostra che fece discutere, perché ci sono poche opere come quelle di Rembrandt sulle quali si scatenano i dubbi di autenticità dei critici. «Le copie di Caravaggio - prosegue Calvesi - hanno qualche valore in particolare quando è possibile capire che il quadro è stato ideato da lui ma poi non è stato personalmente eseguito. Oppure quando non si trova più l'originale. Nel caso in cui venga ritrovato, naturalmente, il valore della "copia" diminuisce. Del Ragazzo che monda una pera, ad esempio, non si conosce l'originale. Del Suonatore di liuto abbiamo una versione a Leningrado e una replica a New York. Il caso più tipico è il San Giovanni Battista dei Musei Capitolini: ce n'è un altro alla Galleria Doria Pamphili, ma è chiaro qual è l'originale. L'altro era una copia di bottega? O venne eseguito al di fuori? E' un sospetto che hanno in molti». Dieci anni fa, proprio il ritrovamento di un Suonatore di liuto destò scalpore. Uno studioso italiano, Maurizio Marini, l'aveva comprato ad un'asta della Christie's romana per 27 milioni. Poi, sul Giornale dell'arte, un suo articolo ebbe effetti dirompenti sul mondo dei critici: la tela non è una copia, disse, ma un originale. Anzi, un quadro citato con precisione nelle fonti antiche (tra cui un inventario del Seicento) e del quale si erano completamente perdute le tracce. L'opera, dunque, valeva miliardi. In campo artistico, comunque, le copie sono un genere estremamente diffuso. Eric Hebborn, il compianto (dagli estimatori, non certo da antiquari e mercanti) «re dei falsari», nel novembre '95 aveva pubblicato un manuale (edito in Italia da Neri Pozza e presentato anche da Federico Zeri) per le persone desiderose di apprendere l'arte del duplicato. «I miei detrattori - scriveva - partono dal presupposto che chi copia non sia un artista. Invece esistono copie, versioni e adattamenti di un livello tale da poter essere considerati arte». Carlo Grande

Luoghi citati: Caravaggio, Castel Sant'angelo, Firenze, Italia, Leningrado, New York, Nton1j Paolucci, Siracusa