Riina «Sono nullatenente Voglio la pensione sociale» di Francesco La Licata

In quelle stanze ha ospitato vip di tutto il mondo e vissuto drammi personali LA SFIDA DEL PADRINO L'Inps dice no, lui si arrabbia: «Non mi arrendo» Rima: «Sono nullatenente Voglio la pensione sociale» IPALERMO L Padrino chiede la pensione. Tranquilli, non intende dare l'addio a Cosa nostra, perché lui la mafia neppure sa cosa sia. Anzi, spiega il suo avvocato del Continente - Piergiorgio Maffezzoli, si chiama - che Riina «non ha mai ammesso di avere un ruolo in questa organizzazione e quindi da che cosa deve andare in pensione?». No, non è a Cosa nostra che si rivolge don Totò, ma allo Stato. Quella «organizzazione» da sempre disconosciuta dai cosiddetti uomini d'onore, fino a negarne la legittimazione ad amministrare la giustizia. Come cambiano i tempi. Fino a qualche tempo fa i boss in cachemire e seta - seppure dentro le celle - rifiutavano con arroganza il «rancio» del carcere in segno di disprezzo verso una sorta di elemosina. Al vassoio preconfezionato sostituivano il «pacco» che arrivava dall'esterno, lasciando «il pasto dello Stato» ai piccoli delinquenti che «non sono nessuno» o ai detenuti extracomunitari. Oggi invece dobbiamo constatare che il sessantacinquenne Salvatore Riina, «nullatenente e nullafacente», raggiunti i limiti di età previsti dalla legge, novembre 1995, si affretta a chiedere la pensione sociale di lire 370 mila circa al mese. Già, la famosa pensione di fame con cui, tuttavia, dicono le statistiche, tira a campare una certa fascia di popolazione. Meno di quattrocentomila lire al mese per il Padrino: quanti mesi di pensione gli saranno necessari per comprare uno di quei «Cartier» regalatigli - a sentire quelle malelingue dei pentiti - dai cugini Salvo di Salemi? E quanti anni ci vorranno per racimolare la modica somma indispensabile per pagare gli avvocati, quelli che lo difendono in Sicilia e gli altri del Continente? Ma don Totò non si pone cer¬ ti problemi. Lui ha deciso di vestire gli abiti dimessi dell'agricoltore indigente e «quinta elementare». Gli abiti di uomo sfortunato che è stato costretto dalla vita a un quarto di secolo di latitanza. Anni difficili, durante i quali ha tirato la cinghia per assicurare la sopravvivenza alla moglie e ai quattro figli, fino a cimentarsi in mestieri mai prima sperimentati, come il «ragioniere pagatore» in qualche cantiere edile, assunto da amici generosi e per questo meritevoli dell'anonimato. In questa sceneggiata è assistito dalla moglie, l'intramontabile Antonietta Bagarella. E' lei che, sono ormai due anni, ha messo in circuito la «notizia» della loro indigenza. Lo ha ripetuto alla polizia, ai carabinieri, ai giudici. Anche ai giornalisti che chiedevano di intervistarla, tanto da lasciar intendere che una sorta di «contributo» non sarebbe stato sgradito. Certo, qualche problema di liquidità ce l'avranno pure i Riina, ora che le cose non vanno come dovrebbero. Ma da questo alla pensione dei poveri, ce ne corre. E allora, perché la richiesta? Forse il gesto rientra nella pantomima che un po' tutti gli uomini d'onore stanno recitando per convincerci che Cosa nostra è morta e mai più vivrà. Forse risulterà funzionale alla difesa nei procedimenti per il sequestro dei beni. In ogni caso, non è nuova la figura del boss «dimesso». Ricordate Michele Greco con la Bibbia in mano che domanda all'intervistatore: «Ma ditemi, in che cosa ho mafiato?». Sarà quel che sarà, ma l'Inps si è dovuto far carico di respingere per iscritto - dopo aver ricevuto notizie (beni sequestrati per 21 miliardi) dalla Guardia di Finanza - l'istanza del «nullatenente» Riina. Lui protesta: «Andrò avanti». Sarà mai cancellata questa «ingiustizia»? Francesco La Licata Totò Riina ha 65 anni e ha chiesto di avere la pensione sociale che ammonta a circa 370 mila lire al mese

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