Il trionfo del vittimismo di Filippo Ceccarelli
IL PALAZZO IL PALAZZO // trionfo del vittimismo =\ HI, ohi, poveri noi, tutto ci è contro, guardate al nostro dolore. E per questo - è sottinteso - ci dovete sopportare, sostenere, e magari pure voler bene. Così dunque continua a levarsi alto il lamento corale del vittimista politico fine 1996. C'è Craxi che piange in tv e fa filtrare terribili foto sanitarie. C'è Occhietto che si richiama al destino, addirittura, anzi al Fato («C'è un Fato che porta la gente a raccontare l'ira di Achille...»). E la Mussolini impreca contro il «massacro» ai danni suoi e del marito; e a Veltroni «ribolle il sangue» perché gli hanno detto Forlani. Da un po' ci si è messo pure Di Pietro, che, pur essendo nuovo del mestiere, s'è adeguato: «Ormai rappresento un intruso», «una persona da offendere per guadagnare la prima pagina», «uno attaccato in tutti i modi», «ogni sciocchezza detta su di me diventa una valanga». Ora, con tutto che la vita è dura, si sa - e la vita pubblica che si sono scelti lo è ancora di più - magari Di Pietro e gli ' altri non hanno neanche torto a dolersi, né sarebbe giusto pretendere da alcuno unsilenzio impassibile o un'intrepida sopportazione. Quel che colpisce, semmai, è la smisuratissima fiducia assegnata alla lamentazione, al piagnisteo, alla geremiade, insomma a quel particolare messaggio di auto-compatimento che non solo oscura ogni ragionevole argomentazione, ma soprattutto suona furbetto e insincero. Perché è davvero arduo commiserare la Pivetti, già descamisada a Pontida, che quasi chiede protezione dalle camicie verdi. Così com'è un atto di fede, calato assai rapidamente l'oblio sulla «cimice», condividere il panico di Berlusconi sullo stato della democrazia e così via, fino al sospetto che non ci siano più confini tra l'odierno agire politico e il vittimismo. Che è certo un antico vizio nazionale, un residuato pure virtuoso del melodramma, ma che purtroppo si sposa bene con le moderne strategie emotive e comunicative, benegie e e quindi con la più semplificata, enfatica e in fondo ricattatoria richiesta di consenso. Per cui l'antidoto, paradossalmente, sta nell'abuso e nella moltiplicazione: se i professionisti del martirio sono troppi, è come se non ce ne fosse nessuno. Ma intanto, con qualche comprensibile smarrimento, tocca sorbirsi Maroni in barella paragonato a una vittima delle Fosse Ardeatine. O Dell'Utri, in doppiopetto e con gratifiche natalizie miliardarie, che evoca Goebbels e l'olocausto. O Mastella che di fronte all'ennesimo scandaletto si richiama ai conflitti razziali dell'Alabama, giacché «noi ex de siamo come i negri. Quando succe- tp de qualcosa di brutto c'è sempre chi dice "E' stato il negro! il negro!"».1 a E allora, di nuovo, non si capisce quanto è artificiale, officinale, funzionale, strumentale e perciò fasullo, questo vittimismo. E quanto invece è autentico. Ecco, pur con mille dubbi la risposta è che nel primo caso, per fortuna, questa specie di trucchetto ad alta intensità emotiva quasi non funziona più, presto toccherà inventarsene uno nuovo. Non a caso qui in Italia l'arma radicale del digiuno s'è spuntata dopo che in Irlanda hanno cominciato a morire sul serio. Ma se invece il piagnisteo è spontaneo, se sgorga naturalmente dal cuore della classe politica, beh, c'è da essere più preoccupati - o più pazienti, dipende - perché forse nasconde qualche ferita. E questo trionfo di ahimè, ahinoi (e ahivoi) non è che il volto oscuro e dolorante di chi si prende troppo sul serio, l'altra faccia di un patetico narcisismo. Filippo Ceccarelli emj elli emj
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