Italia-Libia, disgelo in nome della stabilità di Andrea Di Robilant

Italia-Libia, disgelo in nome della stabilità Italia-Libia, disgelo in nome della stabilità LE RELAZIONI PERICOLOSE ROMA. A fine giugno il senatore Rino Serri, sottosegretario agli Esteri con delega per l'Africa, arriva a Tripoli alla guida di una troika dell'Unione europea. L'obiettivo della missione - la prima dopo l'attentato di Lockerbie nel dicembre del 1988 - è di capire se la Libia stia davvero imboccando «una nuova strada», come sostengono molti Paesi arabi moderati, oppure se dietro ai segnali lanciati dal colonello non ci sia in realtà nulla di nuovo. Gli incontri ufficiali della troika non forniscono indicazioni sufficienti. Ma la sera prima della partenza Serri riceve in albergo una richiesta per un incontro a quat; tr'occhi all'alba del giorno dopo. In quell'incontro il suo misterioso interlocutore - la Farnesina lo definisce «molto vicino a Muammar Gheddafi» ma non vuole divulgarne l'identità - gli conferma «che la Libia vuole uscire dal suo isolamento e partecipare attivamente al nuovo dialogo euro-mediterraneo». E aggiunge: «Vogliamo che l'Italia diventi 2 nostro interlocutore principale in questa nuova fase politica». Una trappola diplomatica? Un'improbabile spy story costruita ad arte per far fare all'Italia l'ennesima figuraccia? Serri torna in Italia e racconta a Lamberto Dini quello che ha sentito. Nel frattempo i nostri servizi confermano l'attendibilità e l'autorevolezza del Mister X Ubico. Ai primi di luglio Dini manda il segretario generale della Farnesina Boris Biancheri a Tripoli per capire cosa si nasconde dietro questa apertura della Libia all'Italia. E dopo una serie di incontri con il ministro degli Esteri Omar Mustafa Muntasser e con l'influente riceministro Abdul El Obeidi, nonché un nuovo incontro con Mister X a Roma, Biancheri si convince che questa volta qualcosa si muove davvero. A quel punto Dini decide che è il momento di imprimere una svolta nei rapporti tra Italia e Libia per uscire finalmente dall'immobilismo che ha seguito l'attentato di Lockerbie. Certo, questa significa smarcarsi vistosamente da Stati Uniti e Gran Bretagna, per i quali la Libia rimane un paria della comunità internazionale che va tenuto isolato. Ma la Farnesina è ormai pronta, anzi vogliosa, di rilanciare i suoi rapporti con Tripoli. Anche per non rimanere eternamente succube della propria reputazione «andreottiana», acquisita negli Anni Settanta e Ottanta quando l'Italia era accusata di chiudere un occhio sui legami di Tripoli con il terrorismo. Naturalmente non è stato soltanto l'incontro con Mister Xa determinare la svolta. «Il primo segnale che a Tripoli le cose stavano cambiando - ricorda Serri - venne la primavera scorsa quando Gheddafi firmò il documento arabo in appoggio al processo di pace. Poco dopo ci fu un secondo segnale importante, anche se all'epoca passò inosservato: in seguito all'attenta- to dell'Ira a Manchester durante gli Europei di calcio, la Libia si offrì di collaborare con la Gran Bretagna per stanare i terroristi irlandesi. A noi quello sembrò un gesto significativo. Così decidemmo di spendere gli ultimi giorni che ci rimanevano della presidanza europea per organizzare quel viaggio della troika a Tripoli». A quattro mesi di distanza l'Italia si muove ancora con cautela, attenta a non esacerbare troppo gli animi a Londra e soprattutto a Washington. Ma intanto sono già entrati in funzione i gruppi di lavoro italo-libici nel settore del turismo, della cultura, dei trasporti. Tra i progetti in discussione vi sono l'apertura della linea marittima Tripoli-Catania (l'embargo Onu imposto dopo Lockerbie riguarda il traffico aereo ma non quello via mare), un master pian per lo sviluppo turistico della costa libica e il restauro delle splen¬ dide rovine romane di Sàbrata. H rilancio dei rapporti italo-libici è anche il frutto di una nuova analisi della situazione interna libica. Per la Farnesina l'espansione dell'integralismo islamico in Nord Africa costituisce una minaccia diretta al regime di Gheddafi. «La situazione diventa paradossale: per anni la Libia è stata giustamente attaccata per il suo ruolo in episodi oscuri e sanguinosi. Oggi diventa elemento di stabilità nel Mediterraneo. Se saltasse Gheddafi, non solo la Libia ma tutta l'area sprofonderebbe nel caos». La diplomazia italiana si è convinta che il vertice del regime voglia rompere l'isolamento in cui Gheddafi ha cacciato il Paese. E che l'esasperazione di quell'isolamento da parte di americani ed europei faccia solo il gioco degli estremisti. «Certo, Gheddafi rimane una mina vagante, ma secondo noi la tendenza degli uomini che gli stanno intorno va comunque incoraggiata». Per questo l'Italia adesso spinge per la partecipazione della Libia al Dialogo euro-mediterraneo, dal quale fu esclusa l'anno scorso a Barcellona dal veto di Londra. «Non ha proprio senso parlare di dialogo nel Mediterraneo se poi nella testa degli europei rimane quell'enorme "buco nero"». La nuova politica italiana verso Tripoh risente dell'influenza, degli incoraggiamenti, perfino delle pressioni dei Paesi arabi moderati. A fine ottobre, quando Prodi si è recato al Cairo per un colloquio con Mubarak, la delegazione italiana rimase colpita dal fatto che il Presidente egiziano, prim'ancora di parlare del processo di pace, si lanciasse in una lunga perorazione in difesa dell'uomo che una volta egli stesso definì «il pazzo di Tripoh»: «Vi assicuro: l'uomo è profondamente cambiato, non è più quello di una volta, vuole uscire dall'isolamento, bisogna aiutarlo». Fu proprio al Cairo, dopo il suo incontro con Mubarak, che Prodi dichiarò pubblicamente per la prima volta che i rapporti italo-libici erano ad una svolta. Il giorno dopo Dini confermò questa linea al Senato. E spiegò, usando la sua espressione americana preferita, che anche nei confronti di Gheddafi bisognava «pensare in positivo». E gli americani? Marcano stretto la Farnesina, ma per il momento non si oppongono al nuovo corso avviato dalla diplomazia italiana. Quando lo scorso giugno emersero le primissime avvisaglie che qualcosa stava cambiando nei rapporti tra l'Italia e la Libia, il sottosegretario di Stato per il Medio Oriente Robert Pelletreau piombò a Roma per saperne di più. Il confronto fu amichevole, ma ognuno rimase sulle proprie posizioni. «Gli dicemmo chiaramente: We ihirik you are wrong», pensiamo che lei abbia torto», ricorda un diplomatico che partecipò ai colloqui. «Nel frattempo noi abbiamo continuato ad andare per la nostra strada. Certo, gli americani rimangono su di una posizione di rigida chiusura e ap- pena si comincia a parlare di Libia tirano in ballo i legami con il terrorismo e gli impianti di Tarhuna, che secondo loro dovrebbero servire alla produzione di armi chimiche. Ma per ora non ci ostacolano: è come se loro stessi fossero interessati a vedere dove porta». Serri aggiunge che finora l'applicazione della legge D'Amato che punisce chi commercia con Iran e Libia è stata molto blanda. E la speranza non tanto segreta del nostro governo è che la rielezione di Clinton porti ad un atteggiamento più flessibile degli americani su tutta la questione libica. Del resto alcuni diplomatici italiani parlano con fastidio della perdurante rigidità anglo-americana nei confronti di Tripoh. E amano mettere in risalto «un curioso paradosso»: mentre la presenza di operatori italiani in Libia è precipitata da 16 mila a 680 da quando è stato imposto l'embargo per Lockerbie, quella dei britannici è arrivata a 5 mila e continua ad aumentare. «Per non parlare dei duemila "canadesi" che in realtà sono quasi tutti americani». Certo, l'Italia rimane il principale partner commerciale della Libia e continua ad importare da quel Paese un terzo del proprio fabbisogno energetico. Ma è forte la sensazione che in questi otto anni l'Italia sia stata «un pessimo avvocato di se stessa». E tra i motivi più importanti che adesso spingono la Farnesina a ritrovare un rapporto privilegiato con Tripoh vi è anche quello di non vedersi soffiare in futuro da inglesi e americani i lucrosi contratti per le grandi opere infrastnitturali di cui la Libia ha disperatamente bisogno. Sulla nuova rotta diplomatica tra Roma e Tripoh rimane tuttavia l'ingombrante scoglio di Lockerbie. Lo stallo, com'è noto, è sul processo ai due libici, Abdel Basset Al Megahi e Al Amin Khalifa, incriminati da un tribunale scozzese per l'attentato al Jumbo della Pan Am che costò la vita a 258 persone. Londra insiste perché i due vengano estradati in Scozia; Tripoh, che per molto tempo ha riconosciuto solo la competenza del Tribunale dell'Aia, ora accetta che sia un tribunale scozzese a giudicare i due imputati ma vuole che il processo si svolga comunque all'Aia. In attesa che i giuristi determinino se un tribunale scozzese possa o meno celebrare un processo all'estero, il sottosegretario Serri ha presentato proprio in questi giorni alle due parti una proposta di compromesso: la Libia accetti il processo in Scozia in cambio di garanzie europee sul collegio di difesa dei due incriminati. «Ma anche su Lockerbie i libici hanno fatto importanti concessioni alla Gran Bretagna», insistono alla Farnesina. «E durante i nostri incontri non fanno che chiedere: "Cos'altro dobbiamo fare?"». Andrea di Robilant Negli ultimi mesi si sono intensificati i contatti tra i due Paesi, sotto l'occhio vigile di Washington I nostri diplomatici stanno vagliando il nuovo corso del Colonnello Paradossalmente, il regime è diventato un argine contro il montante integralismo