La grande manovra che beffò Gingrich di Alexander Stille

La grande manovra eh© beffò Gingrich La grande manovra eh© beffò Gingrich LA NUOVA AMERICA LNEW YORK E elezioni americane contengono molti messaggi contraddittori. Da una parte, Bill Clinton è diventato il primo Presidente democratico dopo Franklin Delano Roosevelt a vincere un secondo mandato. Dall'altra, il partito repubblicano ha conquistato il controllo del Congresso in due elezioni consecutive per la prima volta dal 1928. Gli elettori hanno voluto premiare il Clinton pragmatico e relativamente conservatore degli ultimi due anni piuttosto che quello dei primi due, quando - insieme con un Congresso ancora democratico tento di realizzare programmi sociali molto più ambiziosi. In effetti, la prima fase dell'amministrazione Clinton è stata segnata da molti fallimenti, il più emblematico dei quali è stato il tentativo - guidato da Hillary - di trasformare il sistema sanitario per garantire l'assistenza a tutti gli americani. Si trattava della continuazione dei programmi della «Grande Società» degli Anni 60, ma i democratici - anche a causa delle loro divisioni interne - sono stati incapaci sia di approvare la nuova legislazione sanitaria sia di attuare la riforma del finanziamento delle campagne elettorali. Così, un'ondata di rabbia e di protesta ha eletto nel '94 un nuovo Congresso a maggioranza repubblicana, guidata da Newt Gingrich, l'inventore del «Contract with America», il «Contratto con l'America». Ciò che è avvenuto in seguito è la chiave per capire l'elezione dell'altro ieri. Gingrich e il suo partito sono andati oltre il mandato ricevuto, interpretando la vittoria come un mandato per smantellare il Welfare State creato durante il New Deal di Roosevelt. Non solo hanno proposto di eliminare molti programmi per i poveri, ma anche di tagliare una serie di servizi - come le pensioni del «Medicare» - destinati alla classe media. Inoltre, nel tentativo di stimolare la crescita economica Gingrich si è fatto paladino di massicci tagli fiscali, che tuttavia avrebbero favorito solo i più ricchi. E' stata proprio la sconfitta del '94 a risvegliare l'intuito politico di Clinton. Sostenendo di condividere la protesta degli elettori, ha fatto buon viso alle proposte più ragionevoli dei repubblicani per tagliare alcuni programmi e per ridurre il deficit pubblico, respingendo invece quelle più drastiche. Al contrario, Gingrich ha tentato con una buona dose di arroganza di costringere Clinton ad accettare tutto il programma repubblicano, non esitando a ricorrere allo «shutdown», la chiusura forzata degli uffici federali. E' stata una strategia disastrosa. E' diventato il politico più impopolare d'America, mentre gli indici di approvazione di Clinton continuavano a salire. L'altra leva del successo del Presidente è stata l'ottima performance dell'economia. Mantenendo fede alla promessa di essere «un nuovo democratico» ha ridotto il deficit di bilancio di oltre il 60%. In un quadriennio l'economia è cresciuta a un buon tasso - il 2,5% annuo -, in salita rispetto all'anemico 1,4 dell'era Bush, e l'inflazione è rimasta sotto il 3%, mentre la disoccupazione è scesa al 5,2%. Quello che gli economisti chiamano l'«indice di miseria» - la somma della disoccupazione e dell'inflazione - è all'8,1%, ii più basso dal '68. Così, quando Clinton ha ripetuto la famosa domanda di Reagan - state meglio adesso di quattro anni fa? molti americani hanno risposto «sì» e la stragrande maggioranza di loro ha votato per il Presidente. Contemporaneamente, è stata la radicalizzazione imposta da Gingrich a mettere in difficoltà i repubblicani. Molte delle figure più carismatiche del partito erano membri della destra e, quindi, sono diventati automaticamente impresentabili dopo il fallimento della rivoluzione dello «speaker» della Camera. Inoltre, il crescente potere dell'ala religiosa ultraconservatrice all'interno del partito ha di fatto ridotto al silenzio molti repubblicani moderati. Di conseguenza, i repubblicani sono stati costretti a trovare un accordo sulla figura incolore di Bob Dole, che aveva di fronte l'impossibile compito di tranquillizzare la destra e conquistarsi la fiducia del centro. Quando Dole ha sterzato al centro, lo ha trovato già occupato da Clinton. Da bravo pragmatico - o da camaleonte, secondo i critici - il Presidente è riuscito a realizzare una sintesi di idee democratiche e repubblicane. A differenza dei repubblicani che considerano il governo come un nemico, Clinton ha insistito che il governo ha un ruolo preciso per garantire uguali opportunità e per proteggere i più deboli. Allo stesso tempo, riprendendo uno slogan di Reagan, ha annunciato che «l'era del super-governo è finita»: ha deciso di porre un limite di cinque anni a chi riceve gli assegni del Welfare, ma si è opposto alla cancellazione dell'assistenza agli immigranti e alla riduzione dei buoni per il cibo. Contemporaneamente si è rifiutato di abbandonare il sistema delle quote dell'«affirmative action». Come se non bastasse, il Presidente è riuscito a sottrarre ai repubblicani il tema forte della lotta alla criminalità senza cedere sul problema del possesso delle armi. Per questo suo secondo mandato Clinton ha proposto una visione piuttosto modesta del futuro, ma allo stesso tempo è un Presidente dotato di uno spiccato senso della storia. Sa bene che sta scrivendo l'ultimo capitolo della sua carriera politica: non dovendo più vincere una terza elezione, è libero di fare le scelte che vuole e di costruirsi l'immagine con la quale sarà ricordato. Con tutte le sue contraddizioni e le sue ambiguità, Clinton è il riflesso dell'America di questi anni, di una nazione che vuole ridurre i costi e l'estensione del Welfare State senza eliminarlo, di una nazione che continua a credere nella giustizia e nelle opportunità per tutti ma che non vuole nuove tasse o programmi sociali troppo ambiziosi. Alexander Stille

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