Bill, macarena in volo e trionfo all'atterraggio

A votare con Hillary su una Limousine nera: «Che cosa farò tra quattro anni?» ili, macarena in volo e trionfo all'atterraggio LA NOTTE DI LITTLE ROCK ILITTLE ROCK Clinton sono tornati a Little Rock nel giorno dell'ultima vittoria, il giorno più lungo e tuttavia meno stressante, il giorno senza sorprese. Sono arrivati nella capitale dell'Arkansas alle due di notte e sulla scaletta dell'aereo sono apparsi scalmanati, eccitati, divertiti e un po' sopra le righe. Si è saputo poi che fino al momento dell'atterraggio dell'aereo presidenziale sia Bill che Hillary, la figlia Chelsea; e una sua amica, hanno ballato come forsennati la macarena: sia per scaricare la tensione, sia per prepararsi alla festa nei giardini del palazzo del governatore, lo stesso nel quale i Clinton hanno lavorato lasciandosi alle spalle uno strascico di vicende giudiziarie che seguitano a macinare scorie come la centrale di Cernobil. Uno dei cavalli di battaglia del dignitoso e improbabile Dole è stato proprio questo: «Perché votare per un presidente che dovrà passare i quattro anni del mandato a rispondere ai giudici e a ricevere avvisi giudiziari?». Ma di queste prospettive la famiglia imperiale non sembra affatto preoccuparsi. Certo, non oggi. Ed eccoli là, eleganti, pronti per le telecamere, una grande esibizione di allegria e di sicurezza. Nonché di lusso formale: la famigliola è andata a votare su una lunghissima Limousine nera piena di guardie del corpo, da cui sono usciti salutando una folla ben transennata in abiti scuri. Erano eleganti, di un'eleganza senza pretese, come per andare a cena fuori in casa di amici. Invece era passato da poco mezzogiorno e c'era un bel sole. Qui a Little Rock il tempo regge, fa caldo e l'aria è dolce. I Clinton hanno avuto le telecamere addosso per dieci minuti, mentre erano chini su certi trespoli scomodi e scoperti che si usano qui per votare, mentre la giovane Chelsea si annoiava in un angolo, ma sempre esibendo un sorriso d'ordinanza. Quando i genitori hanno infilato la scheda in una scatola di cartone marrone dopo aver ritirato il certificato da una stampante collegata al computer, la ragazzina si è stretta al papà che le ha massaggiato affettuosamente e distrattamente la spalla sotto lo scricchiolio costante degli scatti dei fotografi. La cravatta di Bill era scura con righe orizzontali un po' paonazze che richiamavano il rubizzo del suo volto pieno. Chelsea era invece in pantaloni bianchi aderenti e camiciola dello stesso colore. Il servizio di sicurezza appariva rilassato e discreto: molta calma, molta noia nelle lunghe ore che hanno preceduto le notizie elettorali. Anche Hillary è apparsa sempre sorridente e sul punto di ridere, come se proseguisse nel suo anime quel folle attacco di allegria giocosa e un po' isterica che aveva colto tutti in volo: una crisi di nervi euforica, frutto della lunga tensione e della vittoria pregustata e troppo scontata, un frutto maturo che la trova ancora al suo posto di moglie presidenziale, ma disarcionata dal ruolo di grande stratega della riforma sociale, capo legislativo delle donne d'America. Hillary è oggi soltanto la moglie di Bill e non più la donna indicando la quale l'aspirante presidente poteva dire: «Votate uno e ne prendete due». Hillary adesso può mostrare soltanto una doverosa, affettuosa e impersonale letizia per i successi del marito presidente, il quale già va di- cendo in giro di sentirsi un giovane disoccupato perchè all'età di 54 anni avrà già fatto e avuto tutto quello che può fare e avere un uomo nella vita: il comando del più forte e prestigioso Paese del mondo, nel momento del suo massimo benessere e massima potenza. Che potrà fare nel 2000 un poveruomo colto dalla disoccupazione nel fiore degli anni dopo essere stato l'ultimo imperatore d'Occidente del secondo millennio? Una mezza idea, dice Clinton, ce l'ho: andrò a insegnare nelle università. Ma le università sono però dei veri cimiteri dorati per gli ex presidenti, che invecchiano andando a sostenere i nuovi futuri presidenti nei comizi, battendo loro le mani e dichiarando senza convinzione che la loro vittoria sarà una nuova vittoria per l'America. In questo senso è particolarmente struggente vedere il terzetto formato dal vecchio candidato Bob Dole (mai nessuno si è presentato per la prima volta alle elezioni dopo aver compiuto settantanni), dall'invecchiato George Bush con la sua pelle leopardata dalle macchie senili, e il quasi decrepito Gerald Ford, l'uomo che ottenne la Casa Bianca per un gioco di prestigio del destino, e non perché qualcuno l'abbia mai votato. Eppure, quei tre presidenti repubblicani (manca Ronald Reagan, troppo anziano e malato, colui che ha ridisegnato i confini del mondo vincendo la guerra fredda culi i suoi modi di duro holliwoodiano) rappresentano tutti un'America vittoriosa e non priva di prestigio, dopo la grande caduta di Richard Nixon. Ma Nixon, evento sul quale non è di moda riflettere, si prese prima di morire la soddisfazione di stringere un rapporto stretto, padre-figlio e anche maestro-discepolo, proprio con questo ex giuggiolone dell'Arkansas che non volle fare la guerra del Vietnam, che fumava spinelli, portava i capelli lunghi, aveva un fratello drogato e una madre svampita e abbandonata da troppi uomini. Il cognome Clinton non è infatti il vero cognome di William, ma soltanto quello dell'uomo che sua madre ebbe al fianco e che la aiutò a tirar su i figli nella terra dura, selvaggia, povera e amara dell'Arkansas, uno segli Stati più depressi dell'Unione, il posto prediletto dal grande disegnatore e umorista Al Capp che ambientava qui le sue storie di allegra miseria con la prosperosa Daisy Mae e lo scioccone Li'l Abner, belli e astuti, vincenti e un po' lazzaroni, un po' come Bill e Hillary, anche se Hillary ha molta puzza sotto il naso ed ha un caratteraccio. La gente di questo paese è ingiu- gnata, di pessimo umore. I tassisti sono tutti neri, fumano grossi sigari come cappe di camino e non ti rivolgono la parola neanche quando li motti di fronte a un'amichevole mancia. Torno a trovare in campagna certi vecchi cacciatori con cui strinsi amicizia quattro anni fa e che gestiscono una fantastica baracca-spaccio - il «R&L Gun Shop» di Philip Young e Doyle Springs - piena di pistole, fucili, dinamite, teste di cervo impagliate, zampe d'orso, amuleti indiani, mitragliatori truccati, coltelli da lancio e panini con la mostarda e i cetrioli. Quattro anni fa mi dissero entrambi di essere anarchici e di voler tornare sulle montagne per sparare sia ai cervi che all'Fbi. Oggi dicono che l'Arkansas è in mano alla malavita e che la sola gente per bene sono certi vecchi indiani con cui vanno spesso in montagna. Uno di loro ridacchiando mi confida che Hot Springs, paese natale di Clinton, era il luogo di villeggiatura preferito da Al Capone. Mi ripetono, come quattro anni fa, di chiamarli senza esitazione se avessi qualche malincontro: possiedono un furgone per correre in soccorso degli amici aggrediti. Ringrazio sentitamente e li saluto, ma a loro penso poco dopo quando entro a notte fonda nella stanza di motel con le luci al neon e la moquette intrisa di fumo e altri sentori e sul cuscino trovo stampato e plastificato un decalogo di raccomandazioni per l'ospite: non aprite la porta, chiudetevi a chiave, non rispondete a sconosciuti, non fate vedere quanti soldi avete in tasca e non esibite gioielli, diffidate degli stranieri e chiamate la direzione o la polizia appena notate qualche movimento sospetto. Alla porta della hall c'è un cartello che dice: qui, niente pistole. Paolo Gii zzanti A votare con Hillary su una Limousine nera: «Che cosa farò tra quattro anni?» Uno scorcio della città natale di Bill Clinton, Little Rock