Gabin, misura del mondo di Gianni Rondolino
Duvivier a France Cinema Duvivier a France Cinema Gabin, misura del mondo EICORDATE le immagini finali del film più famoso di Julien Duvivier, Pépe le Moto, il bandito della Casbah, in cui Jean Gabin scende lungo gli stretti vicoli del quartiere arabo di Algeri per imbarcarsi con Gaby, la donna francese di cui si è innamorato? Immagini di libertà e di speranza, che preludono invece alla sua tragica fine, il suicidio, e in lontananza la nave di Gaby che è salpata. E' una sequenza che non si dimentica: richiama alla memoria non soltanto un film famoso, che negli Anni Trenta ebbe un successo straordinario e consacrò la fama di Julien Duvivier come uno dei massimi registi francesi dell'epoca, ma anche di un attore come Gabin, che di quel periodo fu in certo senso l'emblema, il simbolo. E proprio Pépe le Moko, più di altri film di allora, sintetizza il clima di quegli anni, le speranze e le delusioni, il gusto dell'avventura e il piacere del rischio, l'anarchismo di fondo e il sentimentalismo diffuso: come un ritratto al tempo stesso di un eroe negativo e di una società in crisi. Che Duvivier - di cui ricorre il centenario della nascita e al quale France Cinema dedica a Firenze in questi giorni un'ampia retrospettiva - sia riuscito, forse più di altri, a cogliere e rappresentare quel clima non v'è dubbio. Anche se altri registi furono più grandi di lui, come Renoir, ad esempio, o Jean Vigo, o René Clair o magari Marcel Carne, egli seppe attraversare il cinema (e la società) francese con uno stile eclettico e spettacolarmente efficace che non può essere sbrigativamente liquidato come semplice mestiere. Non si spiegherebbe altrimenti, non soltanto il successo di pubblico e di critica che molti dei suoi film riscossero allora, ma anche la persistenza nel tempo di alcuni titoli, e di alcuni attori-personaggi come Gabin. Il quale, sebbene abbia interpretato con Renoir e Carnè straordinarie figure di ribelle, proletario, delinquente, disertore, che rimangono esemplari nella storia del cinema, fu tuttavia, sotto la guida di Duvivier, proprio in Pépe le Móko, ma anche nella Bandera o nella Belle équipe, il prototipo di quei personaggi ai margini della società. Come se il regista avesse costruito i propri film a misura di Gabin, facendone il centro del dramma, attorno al quale ruotano gli altri personaggi, la storia, T ambiente. Se nella Bandera, girato nel 1935, il legionario Gabin è coinvolto in una serie di avventure d'amore e di morte che rischiano di cadere nel melodrammatico, nella Belle équipe 10 spirito del Fronte Popolare, di solidarietà sociale e di profonda amicizia, si cala in una storia corale in cui Gabin spicca per la sua straordinaria presenza. Sono frammenti di un discorso sull'attore che Duvivier andava sviluppando da parecchi anni, fin da quando, nel corso degli Anni Venti e dei primi Trenta, si cimentava con interpreti, oggi forse poco noti, che seppero dare ai suoi film, da LTiomme à l'Ispano (1926) aAu Bonriheur des dames (1929) a Poil de carotte (1932), sino a Un carnet de bai (1937), La fin du pur (1938) e La charrette fantòme (1939), uno spessore inconsueto: una dimensione spettacolare che andava al di là della storia e degli stessi personaggi. Come di un palcoscenico cinematografico sul quale si mostravano, di volta in volta, volti e corpi, gesti e parole, azioni e atteggiamenti, che avrebbero formato, alla fine, un ricco e vario campionario di caratteri e figure, situazioni e momenti significativi. Perché Duvivier, a differenza dei suoi colleghi maggiori, non aveva forse una propria poetica personale, non era un «autore» nel significato che si è dato in questi ultimi decenni alla figura del regista; ma era appunto un «regista», un eccellente confezionatore di spettacoli, attingendo a piene mani alla letteratura e al teatro, alla tradizione precedente e alla moda. Un regista per il quale un film doveva essere innanzitutto un prodotto popolare, nel senso migliore del termine. E la popolarità da lui conquistata nel corso dei decenni - e mantenuta anche dopo la seconda guerra mondiale, nonostante le difficoltà e le critiche (è lui 11 regista dei due primi Don Camillo, ma anche di un bellissimo Panique del 1946) - dimostra, in ultima analisi, la validità delle sue scelte. Gianni Rondolino
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