La chimica degli sguardi negli scatti di Sander

Firenze, ai Museo Alinari il «farmacista della fotografia» Firenze, ai Museo Alinari il «farmacista della fotografia» La chimica degli sguardi negli scatti di Sander ~T~| FIRENZE 1 VEVA ragione Walter Belili jamin, in questo, e lo diceva f\ con allarme: «L'opera di * *l Sander è più di una raccolta di fotografie: è un atlante su cui esercitarci». Esercitare il nostro fiuto braccato di fisiognomisti, in un periodo terribile come quello (era il 1933): «Da un momento all'altro opere come quelle di Sander potrebbero assumere un'imprevista attualità. I mutamenti di potere, come quelli che da noi si stanno imponendo, trasformano di solito in una necessità vitale l'elaborazione e il raffinamento dell'appercezione fisiognomica». Un allarme comprensivo: il problema della razza, dei profili giudei, il reciproco spiarsi alla ricerca di segni rivelatori. «Bisogna abituarsi a essere guardati in faccia per sapere da dove veniamo». Tenìbile, davvero: e non è un caso che l'opera di Sander, apparentemente per noi così «tedesca» e fortemente Heimat, fosse invece demonizzata dai nazisti. Le lastre distrutte, la sua pericolosa obiettività messa a tacere, sequestrato il testo Antlitz der Zeit, il figlio Erich iscritto al partito comunista condannato a dieci anni di prigione (e vi muore di «causa sconosciuta»). Come scrive Barthes nella Camera Chiara: «I nazisti censurarono Sander perché i suoi volti del tempo non corrispondevano all'archetipo nazista della razza». «La Fotografia della Maschera è in effetti abbastanza critica da destare preoccupazioni». Da mettere in sospetto. Che cosa vengono a dirci oggi, infatti, quale segreto di terrestre violenza inscritta nell'argilla, vorrebbero rivelarci quei volti così immobili e fermi, intemporali, che pure spiano «in macchina», che gettano i loro occhi temibili di scrutatori inflessibili entro il nostro imbarazzo di intrusi, che si sostituiscono alla cappa nera, allo sguardo meccanico dell'obiettivo (non a caso si chiama così) fotografico? Se si entra alla bella mostra aperta sino al 15 gennaio al Museo Alinari (dopo esser passata per Tokyo, Amsterdam, Mosca e Bonn), rassegna che pure non presenta che una piccola parte dei tesori di Sander, è difficile non finire prigionieri in quella rete spinosa di sguardi, puntati come fucili: soltanto certi Perseguitati piegano l'acciaio spento dello sguardo umiliato, soltanto nel Minatore e soldato cieco del '30, in quelle vaste pupille desolantemente vuote troviamo un poco di apparente tregua, di silenzio della tensione. Perché i personaggi di Sander, così ben catalogati per archetipi e mestieri, necessariamente ci invischiano nella loro traiettoria fulminata di animali placcati nell'erbario del loro destino? Il Manovale con la sua bordura di mattoni sulle spalle, quasi un derisorio collo di pelliccia proletaria. Il Fabbro con il corpo ingrembiulato di fumo e la spalla piegata al peso dei martelli. Il Pasticciere obeso di benessere con la sua ciotolona di rame carezzata come una moglie, i Tenutari con le mani intrecciate di pingue complicità e il Disoccupato con la barba trasandata, che pulsa come un vessillo di protesta. Perché? E' subito chiaro: nei loro occhi risentiti di vittime sacrificali, che si spogliano della loro individualità, addirittura della loro psicologia, per vestire i panni del «tipo» sociale, degli archetipi sociologici («sociologia fotografica», così lo scrittore Dòblin chiamava l'attività originale di Sander: «un saggio sul- a Parigi / «clic» di Umbo il vagabondo «Yì PARIGI \ \ IOME d'arte Umbo. Avviato \\ a divenire un nodo sempre 1 più imprescindibile della + ' I foto d'avanguardia, anche se ancora troppo poco noto. Ora il Musée National de la Photographie e un'utile monografia Photo Poche lo risarciscono. Pilastro della Bauhaus, ma segreto e ribelle a ogni didattica, forse perché alla teorizzazione preferiva il vagabondare bohémien, fu tra i primissimi a inventare un ritratto frammentato di luci e ombre aggettanti. Allievo di Klee e di Kandinsky, di Schlemmer e di Theo van Doesburg, ma soprattutto di Itten, Umbo è più sensibile alle forzature espressionistiche e Nuova Oggettività, che non a quelle astratteggianti e costruttiviste del periodo di Dessau, che vedono invece protagonista Moholy-Nagy. Umbo, che ha iniziato come pittore di nature morte cubisteggianti, di xilografie noir alla Vallotton, di macchine celibi alla Picabia, ama il nero, la notte, la parte irrazionale. Con il suo sorriso enigmatico da Charlie Gian, il tratto mongolo alla Paul Muni che ama autoritrarre in sovrapposizione, Umbo fotografa soprattutto le ombre lunghe della paura, anzi, ribalta l'immagine perché quelle ombre smisurate, da specchio deformante, scivolino inquietanti come fantasmi nelle sue strade. Il regime spegne la sua voce: lui che nel '28 ha pubblicato foto anche su Noyji Lev invitato da Rodtchenko, che ha fondato l'agenzia Dephot insieme ad un certo Friedmann, che diventerà poi Robert Capa, è costretto a fotografare trapezisti tristi e precipitati di cristallo, a ritornare vagabondo, quasi in miseria. Il colpo di grazia glielo dà un bombardamento che distrug ge l'archivio di oltre 60 mila negativi, [m. vali.] la storia tedesca») si concentra appunto la scommessa del grande fotografo-scienziato, del matematico dei volti, che voleva esaurire il suo immenso atlante de L'uomo del Ventesimo Secolo. Tutto calcolato: 45 capitoli, ognuno di dodici fotografie, secondo quattro Temperamenti-archetipi [L'uomo legato alla Terra, il Filosofo, l'Agitatore, il Saggio) e gerarchie ben congegnate: «Si parte dal contadmo, l'uomo legato alla terra e si accompagna l'osservatore attraverso tutti i ceti sociali e le professioni, fino ad arrivare ai rappresentanti più alti della civiltà, per poi ridiscendere fino agli idioti». Ai nomadi, i bohémiens, i girovaghi, che hanno frantumato il loro rapporto con la terra. Per questo si parlava di Heimat: lo spirito primo, heideggeriano della Germania. Sander: il Farmacista delle tipologie umane, delle anatomie comparate, quale lo rivela un emblematico auto-scatto, immerso come Faust-Mabuse nel suo laboratorio cosparso di botticini, arbarelle, con accanto «l'armadietto dei veleni». I veleni dell'oggettività. «Vedere, osservare e pensare» era il suo credo, ma anche: «La fotografia non ha ombre oscure». Beata illusione. E' vero, Sander che pure esordì secondo i precetti del pittorialismo, che era stato compagno agli artisti d'avanguardia. Progressisti di Colonia quali Hoerle o Seiwert, che nella sua «antologia» di tipi della Repubblica di Weimar sottolinea Golo Mann - è quanto mai prossimo alle caricature di Grosz o alle maschere di Piscator, pur senza cedere alla tentazione Nuova Oggettività, ebbene Sander avverte subito il rischio di trucchi e abbellimenti: «Nulla nù è più odioso delle fotografie sdolcinate, ricche di effetti e pose». Da «uomo sano» predica l'oggettività: a narrare onestamente la verità», anche se «orrenda». «Dobbiamo essere in grado di sopportare la realtà». Cancella via ogni dettaglio, ogni punctum di distrazione, che non siano le «armi» del mestiere: cancella via persino le identità. Non ci dice che il Compositore da lui scelto è Hindemith, che le mani e gli occhi di bragia del Direttore sono di Fùrtwaengler, che l'Artista abbracciato a due donne è il dada Hausmann. Il suo autoritratto diventa automaticamente il Fotografo: nient'altro che il Tipo, come spiega Tucholsky. Eppure avvertiamo immediatamente che questa religione quasi maniacale per l'esattezza, che sottrae gli uomini al tuorlo del Tempo, si volge per noi subito in follia artistica, in delirio: nel 1930 fotografa un frammento dilatato di epidermide che è già una Via Lattea. «La fotografia è come una nuova creazione della natura». Marco Valloni Una fotografia di August Sander: «Figli di contadini», Westerwald, 1912 circa

Luoghi citati: Amsterdam, Bonn, Firenze, Germania, Mosca, Parigi, Tokyo, Weimar