« Così sono diventata Sofìa »

«A 15 anni ho scoperto di essere bella» La Loren: da piccola mi chiamavano «Stecchetto» « Così sono diventata Sofìa » «A 15 anni ho scoperto di essere bella» SLOS ANGELES ONO nata vecchia. Non ho mai avuto un'infanzia. Quando devo girare un film e apparire triste in una scena, ripenso subito al mio passato. Avevo nove anni e gli allarmi dell'antiaerea mi facevano venire il mal di testa. Le bombe esplodevano e io mi buttavo a terra, con i sudori freddi. Spesso andavamo a dormire in una galleria ferroviaria vicino a casa nostra, a Pozzuoli. Era tutto buio. Ricordo che si scivolava e ricordo anche di essere caduta, una volta. Quando mi alzai avevo la faccia tutta insanguinata. Ho ancora la cicatrice. Sono convinta che saremmo tutti morti di fame se non fosse stato per i G. I. americani. Ero terribile. Mi chiamavano «Stecchetto» e «Stuzzicadenti». Non avevo amici. La notte non riuscivo a dormire e fissavo il soffitto, chiedendomi che cosa ne sarebbe stato di me. Poi la guerra finì e d'improvviso mi resi conto che non ero più «Stecchetto». Succede così nell'Italia del Sud, quando si hanno 14 anni: tutto in una notte. Per la strada i ragazzi cominciarono a girarsi e a fissarmi. E a 14 anni ricevetti anche la mia prima proposta di matrimonio da un maestro. Mamma lo cacciò via in due secondi esatti. Nacqui il 20 settembre 1934 a Pozzuoli, prima figlia di Riccardo e Romilda Scicolone. Eravamo poveri e i miei genitori si separarono dopo la nascita di mia sorella Maria, l'8 maggio 1939. Mia madre ci prese e andammo a vivere con la nonna. E' da allora che adoro l'idea di avere tanto da mangiare. Per anni siamo andati avanti con polenta e 100 grammi di pane al giorno. E non avevo neanche molto da mettermi addosso. Non c'era niente che mi durasse a lungo. Crescevo troppo in fretta. Per questo non ho mai avuto un cappotto e mi consideravo fortunata se d'inverno potevo mettermi un paio di scarpe. Una volta successe che mia madre mi ricavò un vestito da un vecchio cappotto di cammello. Resistette per due anni, ma solo perché abbassammo l'orlo parecchie volte, ed era così spesso che non dovevo metterci niente sopra. Quando si è poveri il meno che possa succedere è avere fame. Io ho ricordi molto imprecisi della guerra e di Mussolini. E' stato un momento fondamentale della storia e una come me che l'ha vissuto dovrebbe poter dire: «Mi ricordo». Purtroppo non ci riesco. L'unica cosa che ricordo è che la guerra andava sempre peggio. E ricordo le file per il pane. Mia madre e io facevamo i turni. Poi arrivò un battaglione di soldati, in camicia chiara, e dal passo ritmato. Per me, quei soldati scozzesi in kilt resteranno come una delle immagini più vive della fine della guerra. Mi precipitai in strada e cercai di fermarli. Riempimmo tutti la strada, in modo che non potessero più procedere. Uno di loro mi diede un panetto di burro, due biscotti e il mio primo caffè, in anni e anni. Poi arrivarono gli americani: mangiavano e bevevano e ballavano, con i fonografi a tutto volume. E come bevevano! Ma amavano i bambini. Ci insegnarono il boogie-woogie e lo slang americano. Fu allora che sentii Louis Armstrong per la prima volta. Ascoltai Nat King Cole, Perry Corno e Frank Sinatra, che avrebbe poi interpretato il mio innamorato nel mio primo film americano. A 12 anni mia madre mi iscrisse in un istituto magistrale. Lo odiai con tutta me stessa, ma ci rimasi fino a 15 anni. Ero bruttina ed essere brutte è la cosa peggiore che può capitare a ima ragazza. In Italia significava dover trovarsi un lavoro. Si lavorava, se non ci si sposava. Ma poi diventai bella. Smisi di crescere in altezza e cominciai a svilupparmi altrove. Nessun uomo può capire quanto sia straordinario sapere che si sta diventando belle. A 15 anni partecipai al mio primo concorso di bellezza e mi piazzai seconda. Mi presentai con una gonna rosa da sera che mia nonna aveva allungato abbastanza perché toccasse il pavimento e mi nascondesse i Diedi. Non avevamo abbastanza soldi per le scarpe. Fu con i soldi del premio che con mia madre comprai due biglietti per Roma, per visitare Cinecittà. Fummo prese come comparse per «Quo Vadis» e guadagnammo 21 mila lire. Ma per mia madre non era la prima volta: ai tempi del muto aveva già avuto una particina ji «Ben Hur». Fu sempre a 15 anni che posai per alcune foto in cui posavo seminuda. Oggi me ne vergogno. Allora le tenni nascoste a mia madre, ma le avevo fatte per un buon motivo. Me n'ero andata di casa perché volevo diventare una grande attrice. Se fossi tornata povera come quando ero partita, sarebbe stata una disgrazia terribile. Fu allora che mi offrirono una piccola parte in un film. Nella versione italiana ero vestita, ma per quella francese mi volevano in topless e all'inizio non volevo, ma avevo fame. E dopo quella scena mi fecero alcune foto. Perlomeno non ero andata in strada a rubare da mangiare. Fin da quando ero piccola ero affascinata dalle americane. Uno dei miei primi ricordi è quando giocavo con mia sorella Maria e facevo finta di essere una star di Hollywood. Il mio ideale era Barbara Stanwyck. Peccato che a Roma le parti nei film non durarono a lungo e mia madre e io fummo costrette a tornare a Napoli. Tornai anche a scuola: se volevo scalare il mondo del cinema, dovevo prima di tutto sbarazzarmi del mio accento napoletano. Contemporaneamente posavo come modella. E la cosa andò avanti così per due anni e mezzo. Ma continuavamo a essere poveri. La mia prima vera opportunità arrivò con un film-documentario intitolato «L'Africa oltre il mare». Interpretavo la figlia di uno scienziato che organizzava una spedizione nel Mar Rosso. Poi ricevetti una secondo proposta: una versione cinematografica dell'«Aida». Era il 1952. Ma la vera opportunità arrivò quando Vittorio De Sica, che aveva diretto e prodotto «Ladri di Biciclette», mi scritturò per «L'oro di Napoli». Seguì «La fortuna di essere donna» con Charles Boyer. Grazie a lui conobbi Stanley Kramer, che mi fece girare «Orgoglio e passione». Ma l'uomo della mia vita e della mia carriera è stato Carlo Ponti, che diventò il mio manager. I miei affetti erano tutti in Italia e soffrii molto quando volammo a Hollywood. Ma ero ambiziosa e volevo riuscire al meglio. A Los Angeles, all'aeroporto, fui accolta da un centinaio di produttori, agenti, giornalisti e fans. La Paramount organizzò un grande party, dove incontrai tutta la gente che contava. A Hollywood non ebbi molte soprese. Avevo visto un film americano alla settimana per anni, perciò tutto mi sembrava famigliare. Pensavo a mia madre che avrebbe potuto venirci, prima della mia nascita. Aveva vinto un concorso organizzato dalla Metro-Goldwin Mayer a Roma, come «sosia» di Greta Garbo. Le proposero di andare in America ma mia nonna non glielo permise. A Hollywood tutti mi facevano le stesse domande: «Ti piacciono gli uomini americani?», «Sei innamorata?». Io rispondevo sempre che gli americani erano dei «fracassoni». E quando volevano sapere che tipo di uomo mi piaceva, dicevo: «Quelli con le spalle larghe, i fianchi stretti, e la testa ben fatta». Sofia Loren Copyright «International Press Syndicate» e per l'Italia «La Stampa» Eravamo poveri e c'era la guerra: sopravvivevamo con pane e polenta. Poi arrivarono gli americani p p H Ancora ragazza posai seminuda per alcune foto Oggi me ne vergogno, ma sognavo di essere una star 1| ^ Quando andai a Hollywood organizzarono un party in mio onore» Sofia Loren con John Wayne durante «La Leggenda di Timbuctu» ecittà. se per mo 21 e non pi del artici posai vo seno. Ala ma buon i casa una rnata artita, terririrono Nella a, ma evano olevo, quella . Perrada a la ero . 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