BOCCA VA A CACCIA DI UNICORNI

IL CONSIGLIO IL CONSIGLIO di Massimo Romano DURANTE il viaggio di nozze in Italia il marito, un tipo svagato e sognatore, scende in stazione per un caffè e prende un treno sbagliato. Cosi perde la moglie e brucia i suoi sogni più segreti, malato di nostalgia della giovinezza e ossessionato dai fantasmi del passato. E' quanto accade a una coppia di Budapest che visita Venezia, Ravenna, Firenze e l'Umbria in un libro delizioso, esente da clamori pubblicitari e poco recensito. Ha un bel titolo, ff viaggiatore e il chiaro di luna (trad. di Bruno Ventavoli, e/o, pp.200, L.27.000). e lo ha scritto nel 1937 Antal Szerb, critico e narratore ungherese di cui la casa editrice romana ci aveva proposto qualche anno fa il romanzo d'esordio, La leggenda di Pendragon, una cupa storia gotica sul mistero dei Rosacroce. dopoguerra». Una passione che è quella di Marco e Carla, i protagonisti del romanzo. Ma soprattutto una passione che ha a che fare con le tragedie di questo secolo, con le lacerazioni di un Paese come il nostro che non ha saputo guardare in faccia i nodi irrisolti della propria storia, con la scia dolorosa di una guerra civile che liberando l'Italia aveva pur tuttavia scavato un solco tra gli italiani. Marco è il figlio di un comandante partigiano che nell'inverno del 1956 viene assassinato in circostanze misteriose nella sua casa, di sera, mentre l'Italia sta assaporando il gusto dei nuovi riti televisivi con le prime trasmissioni di «Lascia o raddoppia?». Carla è fi¬ glia di un militare della Decima Mas di Borghese e di una donna passate per le armi dai partigiani perché sospettata di essere una spia dei fascisti. Carla e Marco si gettano in una storia d'amore condizionata e funestata dagli incubi di un passato che non sa passare, ostacolata dal dèmone della reciproca incomunicabilità, oscurata dalla percezione di un sospetto fosco e terribile. Carla e Marco sono i figli di una storia italiana che ancor oggi viene protetta da una muraglia di tabù e di interdetti che ne impediscono l'esatta decrittazione e lo studio libero. Carla e Marco sono due personaggi che risvegliano la curiosità storica e umana di Pansa che si misura con una materia scottante e sfuggente. Beninteso, scavando nei grovigli ancora imbarazzanti di quello scorcio di storia in cui italiani in armi sparavano contro altri italiani in armi, Pansa non dubita nemmeno per un istante sulla legittimità della sua scelta di campo: in altre parole, non è diventato un «revisionista» storico che decide di rimettere le cose della storia in un modo tale che i cattivi risultino buoni e viceversa. No, Pansa sceglie di affrontare il «non detto» della nostra storia nella convinzione che soltanto un esercizio di verità, di coraggiosa rivendicazione di tutt'intero il nostro passato, anche di quello che si vorrebbe dimenticare e nascondere, può permetterci di riconciliarci con la nostra storia e di farne materia viva della nostra identità nazionale. Che poi rappresenta la parabola dei due personaggi del romanzo che non vogliono dimenticare (anzi, trovano in una smania furiosa di ricostruire il passato in tutti i suoi più raccapriccianti dettagli l'alimento emotivo della loro intesa più profonda) ma che non vogliono farsi irrigidire nella paralisi di una memoria che si aggrappa ai propri feticci e ai propri fantasmi. Chi conosce la carica «civile» che nutre da sempre l'attività giornalistica di Pansa ritroverà qui lo stesso spirito battagliero del cronista capace di andare controcorrente ma scoprirà anche un Pansa che non impugna la spada del giustiziere ma la penna del diarista, che sa indovinare pensieri e motivazioni segrete che stanno alla base dei suoi personaggi. Un Pansa inedito, che naturalménte suscita l'avversione di molti «grandi vecchi» del giornalismo italiano che alla fama di eterni giustizieri senza macchia e senza paura tengono più di ogni altra cosa (a cominciare da Giorgio Bocca, che con Giampaolo Pansa ama comportarsi come il testardo protagonista dei Duellanti). Ma è difficile che tutto questo possa convincere Pansa a desistere dal suo viaggio nei «nostri giorni proibiti». influsso dell'Ulisse di Joyce, con impiego di tecniche come il monologo interiore. Ora, i nuovi romanzi si presentano come lo sforzo di esplorare l'essenza dell'ebraicità che scorre nelle vene di Ira-autore partendo proprio dal tuffo nel crogiolo di Manhattan, dove anche a causa della residenza dei genitori, lavoratori poverissimi, in un quartiere irlandese a Harlem, il fanciullo fu contemporaneamente staccato dalla sua gente e identificato da fuori come imo di loro, diverso eppure privo di alleati e di una vera cultura. E quanto a Joyce, le pagine che dicevo, e che appartengono alloggi» in cui «Ira» scrive, proclamano l'affrancamento dal soffocante esempio del grande innovatore, affrancamento che Ira si concede quando si rende conto che Bloom, l'ebreo protagonista di Ulisse, non è a guardar bene minimamente caratterizzato come tale - non un accenno a «matzah», «cheder», «Yom Kippur», «Purim» o «Hamantashen», non una sola parola di yiddish, non una eco dei pogrom che pure si stavano svolgendo in Europa in quell'anno 1904. Il Bloom di Joyce in altre parole è ebreo perché il suo creatore ha bisogno che così sia per ragioni simboliche, ma nel suo egoismo lo scrittore non ha H nemmeno tentato di penetrare nella sua testa ebraica; eppure si azzarda con faccia tosta a parlare di flusso della coscienza, di psiche interiore degli ebrei! La liberazione dal modello incombente del massimo autore del secolo consente dunque a Roth-Ira di abbandonarsi senza scrupolo alla pura ed ebraicissima narrazione, filtrata da una memoria che non trascura alcun particolare. Ed è proprio questo iperrealismo a sostenere il nuovo e speriamo non ultimo capitolo, che trasporta Ira dalla scuola, dov'è goffo e infelice e dalla quale viene espulso per il maldestro furto di una stilografica, all'Università dov'è ammesso dopo essere passato per alcuni lavori che HI Esce postumo «Una roccia per tuffarsi nell'Hudson», $ seconda, parte del ciclo «Alla mercé di una brutale corrente» Henry Roth, rivelatoli nel '34 con «Chiamalo sonno» gli consentono contatti con la brulicante umanità della New York dei primi Anni Venti, controllore di tram sovraffollati, venditore di bibite agli stadi. Grassoccio e maldestro, è quasi condannato a fallire in tutte le sue imprese, n» inopinatamente si distingue nel tirassegno, conquistandosi una momentanea popolarità nella nuova scuola; e proprio alla fine del volume, mentre lotta per essere ammesso al secondo anno di biologia, ha la rivelazione del proprio talento e del proprio destino di scrittore. A questo punto Ira si è messo a frequentare un coetaneo più benestante e distinto, che lo introduce in ambienti letterari e che, cosa che turba assai Ira, ha un flirt con la sua giovane professoressa. Ira è attirato ma anche spaventato da questo Larry, tanto più disinvolto e mondano di lui, specie quando confronta il suo ambiente con le stanzette odorose di aglio dove i suoi vivono ammucchiati, e dove lui, qui viene fuori il segreto finora inconfessato da Roth, fornica di nascosto, velocemente ma avidamente, e reiteratamente, e, se si passa l'ossimoro, con una sorta dì innocente senso di colpa, con la sorellina quattordicenne. Masolino d'Amico iiiiiiiliiililiililiil Pierluigi Battista Giorgio Bocca pubblica da Mondadori «Il viaggiatore spaesato», una testimonianza che ricorda e, a tratti, continua, le pagine autobiografiche de «Il provinciale». BOCCA VA A CACCIA DI UNICORNI IL VIAGGIATORE SPAESATO Giorgio Bocca Mondadori pp. 204 L. 28.000 E IL VIAGGIATORE SPAESATO Giorgio Bocca Mondadori pp. 204 L. 28.000 E' uno «spaesamento che si allarga, giovani o vecchi che siamo ci sentiamo continuamente addosso il pensiero di partecipare a opere che poi se ne vanno per conto loro in un intrico caotico, in una proliferazione a catena di disordine e di incognite». Riflessione di un Giorgio Bocca amaro, sull'appartato. Parole che vengono dal suo ultimo libro II viaggiatore spaesato, una testimonianza che ricorda, e, a tratti, continua, le pagine autobiografiche de II provinciale. E' un Bocca meno battagliero, che mette fra parentesi la voglia di scoprire il «nuovo» o di muoversi unicamente sul terreno della cronaca, per ancorarsi a geografie, volti, memorie consolidate: radici dalle quali è possibile passi nuova linfa, si maturi una nuova storia. La Valle d'Aosta, le Langhe, i mari della costa: è qui che Bocca torna a interrogarsi, a cercare di cogliere nodi e strappi di un percorso esistenziale e culturale che ha segnato ormai il mezzosecolo. «Vecchi o giovani siamo spaesati proprio mentre il nostro popolo, il nostro Paese stanno cambiando più che nei cinquemila anni precedenti: i nostri bambini, questo almeno lo abbiamo notato, non giocano più con le mani, ma con le iinmagini...», scrive Bocca. E da vecchio contadino, al riparo della neve, dell'inverno, delle sue montagne d'adozione, rivede uno dei grandi strappi compiuti: la separazione dal mondo animale, l'anello saltato, per insensibilità, incapacità di sentimento. Spaesamento e scomparsa sono i due termini del «camminare» di Bocca, e allora i «suoi» luoghi diventano il pozzo nel quale cercare memorie, fiabe, leggende, testimonianze, nella speranza che una volta riemerse possano fare da collante a un futuro diverso. «Giovani e vecchi sono sempre fatti della micidiale pasta dell'uomo e come sempre una generazione attende con impazienza che la più anziana si tolga di mezzo. Su questo non si può sbagliare, i giovani non si sentono debitori di alcunché verso gli anziani, neppure di quanto hanno fatto e patito perché fossero liberi, e gli anziani hanno sempre scambiato la loro giovinezza per un mondo migliore popolato di uomini migliori». Scrittore civile, disincantato ma con una giocosa voglia invece di stupirsi e contraddirsi, Bocca sa che già «c'è stato il gioco misterioso di una storia non lineare, che si ripiega su se stessa, torna indietro, distrugge o nasconde bellezze e maestà...». Così, nei paesaggi, va a caccia degli ultimi «unicorni» umani, il don Conterno, prete in Dogliani, che ha la sua teoria del passaggio di Annibale per le Alpi della Val Maira, con gli elefanti e alchemici procedimenti per tagliare la roccia; o la figlia Nicoletta che s'intestardisce a produrre vino a San Fereolo; gli ultimi vecchi che vivono nella vigna e muoiono in casa; le signorine Barbero, di Cherasco, grandi confettiere o il mitico Bartolo che fa ancora il Barolo senza usare le barriques e querella con la Gancia sul modo di terrazzare i vigneti. E ai vivi unisce quegli altri «unicorni» del passato, da Cavour a Einaudi, al Duca di Cuneo, personaggio calviniano, impasto di grandezza e tedio, uno che «sa che il male è decisivo e che senza il male non fai un passo», che prova disgusto fra «progetti del dominio e orrore del dominio». Ricerca di identità in una realtà che si è sbarazzata della memoria, che della virtualità sembra oggi farsi forza e «paesaggio». Un modo per eludere la cattività, si chiami vita associata, pubblicità, caduta della fede e di quella fede che credeva nella ragione, attorniati da strumenti sempre più precisi, raffinati, ai quali non sappiamo affidare idee vitali. Il camminatore Bocca registra il suo spaesamento, senza vittimismo, senza pessimismo, gli unicorni da qualche parte vivono ancora, vivono sempre. Nico Orango