LA SPARIZIONE

LA SPARIZIONE LA SPARIZIONE Per De Rita non c'è più borghesia Ma leggendo il Rapporto Istat... E classi sociali in Italia continuano a sparire per effetto di colpi di scena editoriali. Possiamo far risalire alla fine degli Anni Ottanta il solenne annuncio riguardante la scomparsa della classe operaia (che nel frattempo, pur non godendo di ottima salute, risulta persistere con circa 4 milioni e 600 mila unità nella sola industria). Dieci anni dopo, alle soglie del Duemila, Giuseppe De Rita ci comunica con un agile volume-intervista curato da Antonio Galdo che il conflitto di classe ha perduto nel nostro Paese pure l'altro suo storico contraente: la borghesia. Via, sparita anche lei, se mai ce n'è stata davvero una. Più precisamente, conglobata insieme ai suddetti ex operai, agli impiegati, agli insegnanti, ai bidelli, agli artigiani, ai coltivatori, ai poliziotti, eccetera dentro una «grande bolla» di ceto medio comprendente nientemeno che «il 90 per cento deDa società italiana». Siamo, come si vede, ben oltre la teoria della «società dei due terzi» (due terzi di integrati contro un terzo di esclusi) suggerita dal socialdemocratico tedesco Glotz dieci anni fa. Con De Rita perveniamo alla società dei nove decimi. Il fondatore del Censis, oggi presidente del Cnel, da sempre ci coinvolge con le immagini suggestive della sua ricerca sociologica, dal «sommerso» al «piccolo è bello» fino alla più recente «società densa». Spero dunque di non offenderlo se oggi propongo la lettura in parallelo della sua provocatoria intervista con un libretto prezioso di tutt'altra natura, nude cifre bene ordinate in fila: si tratta del Rapporto sull'Italia nato dalla collaborazione tra l'Istat e II Mulino con lo scopo di divulgare anno dopo anno in forma sintetica, quasi da bigino, le statistiche del cambiamento sociale. Affrontando il ragionamento sempre stimolante di De Rita è infatti opportuno ancorarsi saldamente ai dati sulla diversificazione del reddito individuale e familiare, sulla fuga dalla scuola e dall'università, sulla disoccupazione e sul sistema pensionistico. Tenetevelo insomma accanto, il Rapporto sull'Italia, mentre sfogliate l'Intervista sulla borghesia in Italia. Ben comprensibile è l'intenzione che muove la polemica dell'autore nei confronti di una classe imprenditoriale la cui credibilità è fortemente minata dai suoi stessi risultati. Che capitalismo è quello in cui le perdite dell'Olivetti, guidata da un protagonista di primo piano come Carlo De Benedetti, possono rivelarsi doppie nel giro di poche settimane? Che capitalismo è quello in cui - nota giustamente De Rita - può scappare detta a Raul Gardini una frase come «la chimica in Italia sono io», con l'epilogo tragico che conosciamo? Che capitalismo è quello in cui perfino sotto i tappeti del salotto buono di Gemina si nascondono dei fondi neri? Non sono nuove le analisi sul deficit di trasparenza che penalizza la Borsa italiana e sulla ritrosia imprenditoriale a misurarsi per davvero nel mercato della libera concorrenza, senza protezioni di Stato o di cartello. De Rita, come sempre, è anche capace di andare controcorrente là dove elogia l'Ili come «palestra di classe dirigente» e sostiene che «la maggior parte dei boiardi di Stato hanno fatto il loro dovere». Ma se pure l'intenzione è volutamente polemica, permane il dubbio che l'uso del paradosso stavolta abbia preso la mano all'illustre sociologo. Accettiamo infatti il presupposto che qui De Rita volesse fare solo della psicosociologia, o se preferite un pamphlet impressionistico, laddove invece l'Istat propone un'interpretazione sociale elementare. Ma, ugualmente, cosa ce ne facciamo ormai del luogo comune della «cetomedizzazione» o dell'«imborghesimento» di massa, che riecheggia nella vulgata sociologica fin dai tempi del primo miracolo economico? L'abusatissima intuizione pasoliniana dell'omologazione culturale, che l'autore (c'era da giurarlo) adopera, perde immediatamente la sua efficacia quando la si vuole piegare alla definizione in chiave moralistica e suggestiva di una classe sociale. Diviene così inevitabile qualche grossolanità. Chiede Galdo a De Rita: chi sono gli La società italiana sarebbe ormai al 90% solo una «grande bolla» tutta di ceto medio Giuseppe De Rita " IERICOMEOGGI " // nerbo della nazione? OLTRE al Rapporto Istat, è utile leggere in parallelo al pamphlet di Giuseppe De Rita il saggio di Alberto M. Banti, Storia della borghesia italiana (Donzelli, pp. 395, L.50.000). Vi si ritrovano in origine alcune delle questioni oggi dibattute, prima fra tutte il rapporto da sempre controverso tra borghesia e nazione. Docente di Storia del Risorgimento all'Università di Pisa, Banti ripercorre in questo primo volume «L'età liberale» (ne seguirà un secondo, «Dal fascismo ai giorni nostri»), ma per farlo deve prima definire il concetto di borghesia e descriverne l'identità. Concetto ed identità multiformi e mutevoli, sia per i protagonisti diretti sia per i suoi osservatori. «Ho deciso di considerare borghesi - scrive Banti - coloro che concentravano nelle loro mani capitale economico e capitale culturale». Ma che cosa trasforma questi soggetti in classe? Qui si delinea un processo di autoidentità, «Il lessico di classe non è nato per descrivere è nato per inventare realtà... il termine borghesia si può legittimamente utilizzare solo se e quando i soggetti stessi decisero di adottarlo come cifra distintiva, come parte integrante della loro complessiva strategia di identificazione sociale». Ma rimarrà a lungo una costruzione concettuale, una immagine retorica, una proiezione etico-politica. Basti pensare agli exempla pedagogici dei Ricordi di Massimo D'Azeglio e al Cuore di Edmondo De Amicis. In altri termini, se da un lato la nostra borghesia nasce in quanto classe dirigente nella formazione dell'Italia unita (prima del '61 si può parlare al massimo di élites piemontesi, lombarde, toscane..), non sempre (o quasi mai) i borghesi seppero essere coerenti e conseguenti con quella rappresentazione di borghesia. Quella avrebbe dovuto essere il nerbo della nazione, esaltava la Patria e il suo Re, la bandiera e il popolo, ma «non informava ai superiori interessi nazionali la sua attività professionale o la sua partecipazione alla lotta politica», cedeva al perseguimento di interessi individuali e di gruppo (pratiche clientelali comprese). Lo denunciavano con pari forza i conservatori, per sferzarne anima ed orgoglio (contro un'aristocrazia nobiliare in decadenza, un'aristocrazia del danaro avida e immorale) ed i cattolici (il borghese come massone o liberale cinico) e naturalmente i socialisti (il borghese come capitalista rapace e privo di scrupoli). Fin dalle origini la borghesia «si era rivelata strutturalmente inferiore alle aspettative», incapace di farsi classe generale (anzi, l'accusava già Pasquale Villari di aver ridotto il governo a propria consorteria), di essere appunto «nerbo della nazione». Ieri, oggi. E domani? esclusi dal grande ceto medio italiano? E quest'ultimo risponde lapidario: «Nella parte alta restano fuori, ad esempio, le grandi famiglie del capitalismo italiano. Nella zona bassa le minoranze, rappresentate oggi dai veri esclusi della società italiana: i disoccupati cronici, i drogati, gli extracomunitari, i barboni». Ale, tutti gli altri dentro, scappa quasi da dire. L'impressionismo sociologico conia definizioni efficaci, come «neoborghesia rampante», che però divengono nocive se ci accontentiamo di attribuire a una tale entità non meglio precisata il processo di autocorruzione da cui scaturirebbe Tangentopoli (pag. 52). Salvo produrre, già nella pagina seguente, fraseggi letterari di rara efficacia suggestiva: «Tutti semibambini davanti alla televisione, a vedersi uguali, a ripetere le stesse cose, ad uscire di casa per fare gli stessi acquisti». Ecco, è proprio sicuro il fondatore del Censis che oggi gli italiani tendano a uniformar¬ si assomigliandosi sempre più, e non viceversa a separarsi divaricando i propri destini? Una intensa passione etica guida De Rita, oltrepassando la stagione disincantata dell'Italia sommersa ma capace di arrangiarsi. Così, nella sua critica alla borghesia incapace di assolvere la propria funzione nazionale, possiamo riconoscere la visione solidaristica del sociologo cattolico che si dichiara d'accordo con Bertinotti sulla tassazione dei Bot. Questo non deve stupirci. Non è per caso che, nel tormentato dibattito autunnale sulla legge finanziaria, rifondatori comunisti e cattolici prodiani si sono ritrovati d'accordo riguardo all'intangibilità di pensioni e sanità, così come sulla cautela in materia di privatizzazioni. Ma questo sarebbe un altro discorso: il De Rita pensiero non è riducibile alla sua ultima provocazione. Gad Lerner Roberto Carlo Delconte

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