Una strage di affreschi Lagnasco, così muore un castello

Una strage di affreschi //più importante ciclo pittorico del '500piemontese è ormai quasi distrutto Una strage di affreschi Lagnasco, così muore un castello a LAGNASCO EL cortile erboso del castello di Lagnasco, due o tre pensionati hanno accostato le seggiole alla muraglia di mattoni corrosi dai secoli, e si scaldano al sole del pomeriggio d'ottobre. Sono loro, mi dice il sindaco, gli attuali abitanti del castello, loro e pochi altri: l'Opera Pia affitta a ciascuno qualche stanza, ricavata nelle zone meno cadenti del complesso, e in fondo è una fortuna, almeno dove abitano loro riescono a impedire che cada tutto a pezzi. Il sindaco si scusa, in dialetto, con un'anziana signora per questa invasione, poi sgattaiola nell'androne tenebroso e su per lo scalone di pietra; dietro, io e pochi altri fortunati che si sono uniti a questa visita fuori programma. Al primo piano u sindaco apre un portone, ci precede all'interno e spalanca le imposte; e noi restiamo tutti quanti a bocca aperta. In fondo al salone troneggia un immenso camino di marmo, tutto bassorilievi, la cappa sormontata da uno stemma bianco e rosso; lungo le pareti scrostate affiorano ovunque tracce di delicatissimi affreschi rinascimentali; il soffitto è ligneo, a cassettoni, con le travi aipinte e un trionfo di rosoni dorati. In un angolo, una porticina rèsta chiusa; il sindaco si scusa, di là abita la signora, è tutto affrescato anche di là, ma gli dispiace disturbare, e comunque di sale affrescate ce n'è quante ne vogliamo, nel castello, anzi queste sono le meno importanti; ora passiamo nell'ala occidentale, lì sì che vale la pena. Il castello di Lagnasco, in realtà, è un complesso di tre edifici costruiti fra Tre e Quattrocento, di mattoni rossi, con loggiati ariosi e tetti di tegole, come usava da queste parti; siamo a due passi da Saluzzo, in mezzo all'area a più intensa vocazione frutticola di tutto il Piemonte, dalla torre si vedono filari di peschi e pergolati di kiwi a perdita d'occhio. L'Opera Pia che oggi è proprietaria del castello, e ovviamente non ha i fondi per evitare che cada in rovina, è l'Opera Pia Tapparelli, erede della famiglia omonima; i cugini, per intenderci, di quei Tapparelli che in un altro angolo di Piemonte avevano comprato il feudo di Azeglio, e nel cui palazzo torinese vide la luce Massimo d'Azeglio. Il sindaco, giovane e in carica da appena un anno, è un medico, a capo di una Usta civica; nel suo programma il recupero, o almeno la salvezza, del castello è una priorità assoluta, ma i soldi, i soldi dove trovarli? Solo a pensare quanti ce ne vorrebbero tremano le gambe: chi dice otto miliardi, ride amaro il sindaco, chi dice sessanta, ma in ogni caso noi non li abbiamo, e l'Opera Pia neanche. Ci vorrebbe una banca, magari una banca tedesca, la Deutsche Bank, butta lì qualcuno: per scherzo, ma neanche tanto... Ma vale la pena di salvare il castello di Lagnasco? Accidenti, se vale la pena; non tanto per gli edifici, in sé imponenti, ma per gli affreschi. Nel Cinquecento il castello apparteneva a Benedetto Tapparelli, dottore in legge, e giudice regio a Saluzzo durante il ventennio di occupazione francese del Piemonte. Ritiratosi a vita privata al ritorno di Emanuele Filiberto, dopo il 1560, Benedetto consacrò i suoi ozi di gentiluomo raffinato, e i molti quattrini accumulati quando faceva il giudice, alla decorazione della sua residenza. Conosceva le persone giuste, il signore di Lagnasco, e fra l'altro Valerio Saluzzo della Manta, suo cugino, che proprio allora stava' facendo ammodernare la decorazione del castello della Manta; anche per suo tramite vennero invitati a Lagnasco maestri minori quanto si vuole, ma squisiti, l'Arbasia, il Dolce, e il risultato sono centinaia di metri quadri di pareti affrescate, il più straordinario ciclo di affreschi rinascimentali in Piemonte. I più importanti sono quelli del cosiddetto castello di ponente. Il sindaco attraversa di nuovo la spianata erbosa, doppia agilmente un tratto recintato, col cartello giallo che segnala pericolo, perché, dice, quest'ala sta franando, e infatti nelle muraglie intonacate si distinguono a occhio nudo enormi crepe; con una chiave degna di San Pietro spalanca un altro portone. Sull'architrave un'iscrizione latina: Benedetto Tapparelli, leggo, benché ormai anziano, anzi vicino allo scadere della dodicesima ora, ha voluto rinnovare questo palazzo per sé e per gli amici. Ed eccolo lì, il Tapparelli, ritratto in un grande affresco all'imbocco dello scalone; austero, vestito di nero, come si conveniva a un gentiluomo del Cinquecento, giudice per di più; con una barbetta ben curata, e la bocca appena increspata in una smorfia sprezzante, come di chi non ha molta fiducia negli uomini (e faceva bene, a giudicare da quel che sta succedendo al suo castello). Proprio di fronte, il ritratto di una dama, col volto celato da una tenda: la moglie di Benedetto, mi assicurano, morta ancor giovane, ciò che spiega quel drappo, messo lì per nascondere anche à noi, e per sempre, quel volto che il vecchio Benedetto non poteva più contemplare. Ed eccoli, gli affreschi, ovunque, nelle sale di rappresentanza e negli studioli riservati, nei locali di servizio e perfino in cantina: grottesche irte di mostriciattoli, che paiono usciti dalla fantasia di Hieronymus Bosch, e stormi di uccellini perfettamente copiati dal vero; storie di Bacco e tralci di vite, sulle volte della scala che conduce alle cantine, e immagini allegoriche della Giustizia, nel salone dei ricevimenti; e ancora, vedute campestri popolate di contadini e viandanti, asinai e cacciatori e bambini intenti al gioco, e rovine romane e città immaginarie, e un'intera flotta in assetto di guerra, con la galera in primo piano rappresentata in ogni particolare, fino all'ultimo archibugiere e all'ultima coppia di remi, identica a quelle che di lì a poco avrebbero sconfitto i Turchi a Lepanto; e una veduta dello stesso castello di Lagnasco, come appariva allora, quasi nuovo, con i tetti che non facevano acqua e le muraglie immuni da fenditure, e i giardini e gli orti amorosamente lavorati... E oltre agli affreschi, ovunque immensi camini di marmo, con lo stemma bianco e rosso dei Tapparelli, e soffitti a cassettoni dorati, e pavimenti di cotto, e addirittura piastrelle di maiolica, le più antiche conservate in Piemonte. Ma anche, e dappertutto, umidità che trasuda divorando gli intonaci, e polvere e macerie, e escrementi di topi; e soffitti puntellati, e sale dove non si può mettere piede, perché c'è il rischio che crolli tutto, In uno dei saloni, il pavimento è interamente ricoperto dagli archivi della ditta Boretto Giuseppe e Figli, Stagionatura e Commercio Formaggi, che fino agli Anni Cinquanta occupava un'ala del castello: accatastati per terra ammuffiscono libri mastri, corrispondenza d'ufficio e fogli ingialliti di carta intestata della ditta, sede sociale di Lagnasco, numero di telefono: 5. Il sindaco si rialza dopo aver frugato nel mucchio, l'abito sgualcito e bianco di polvere, e mi guarda stringendosi nelle spalle: già, altro che otto miliardi, hanno ragione quegli altri, ci vorrebbe per lo meno la Deutsche Bank. Ma insomma, viene da obiettare, nel Piemonte del Cinquecento si sono trovati i soldi per tirar su questa meraviglia, è possibile che nel Piemonte dei Duemila, traboccante di telefonini e di 4 x 4, non si trovino i soldi per conservarla? L'amministrazione comunale, qui, è in mano a gente giovane, preclusioni ideologiche non ne hanno: va bene l'intervento pubblico, ancor meglio il privato; qualunque proposta merita di essere discussa, purché si eviti la catastrofe. Se nemmeno questi ce la faranno, tanto vale gettare la spugna, e allora chi può telefoni al Comune di Lagnasco: chiedete di andare a vedere gli affreschi, e portate i bambini, perché quando saranno cresciuti gli affreschi non ci saranno più. Alessandro Barbero Qui accanto, affresco della Sala di giustizia; al centro, particolare dell'antisala Donna velata, affresco di Cesare Arbasia; sotto, il mastio del castello