schegge di rivolta lotta continua

schegge di rivolta Vent'anni fa a Rimini il movimento si sciolse e si disperse: fra terrorismo e misticismo, tra pds e Berlusconi schegge di rivolta COSI' grigio di onde e di solitudmi il mare di Rimini, a ottobre, era assai appropriato all'evento. E anche _J il cielo di Rimini e la rabbia piena di nuvole e infine vuota di parole. Perché a ripensarci oggi - passati 20 anni di incendi e cenere - Lotta continua e il paesaggio di quei giorni coincidono come un orizzonte, o un set, quando tocca alla parole «Fine» prendersi la scena. Anche se l'ultimo sostantivo pronunciato, fu «Terremoto», con la sua premonizione di macerie. Si disse allora, 31 ottobre 1976, davanti a un migliaio di militanti insieme commossi e furenti: «Lotta continua si scioglie nel movimento, torniamo acqua nell'acqua, lotta nella lotta». Ma nell'imminenza dell'addio, Adriano Sofri disse di più: «Il problema di questo congresso è a cosa aggrapparsi. Quando c'è il terremoto non puoi far niente, quando ti bombardano o ti corrono dietro sparando, tu ti butti per terra. Ti aggrappi alla terra. Ma quando c'è il terremoto è la terra che si muove». E la terra si stava muovendo. La spinta di superficie ebbe molti nomi: femminismo prima di tutto che disarticolò il rapporto uomo-donna dentro l'organizzazione, ma anche critica della politica, rivoluzione delle aspettative crescenti, rifiuto del lavoro, rifiuto della delega, rifiuto del leaderismo, teoria dei bisogni, voglia di vita e di tenerezza, declinandosi tra Bologna, Roma, Milano, Torino, nella lunga stagione del 1977. Stagione di ingenuità libertaria, violenza di piazza, musica, autocoscienza, teatro di strada, riviste, fumetti, radio libere, centri sociali, occupazioni di università, case, fabbriche abbandonate. Stagione di esodi verso l'Oriente, specchio di narcisismi e di avventure esistenziali dentro ai quali si coltivava il desiderio, il viaggio dentro se stessi e pure le piantine di marijuana. Come nel «Macondo» di Mauro Rostagno, partito dall'Università di Trento con Renato Curcio, passato per Lotta continua, e poi finito morto ammazzato (ancora senza spiegazione) in un posto assai poco rivoluzionario come la comunità Saman di Francesco Cardella. Ma sotto la superficie, anche se destinata a prendersi potentemente tutta la scena degli anni a venire, un'altra spinta buttò all'aria Lotta continua: la lotta armata. Che allora, in puro dialetto leninista, veniva declinata con altre parole «la questione della presa del potere», o «autorganizzazione rivoluzionaria», o «critica delle armi», ma sempre di quello si trattava, uso e legittimità della violenza. E più sinteticamente: terrorismo. Di quello si trattò. La fessura aperta dalla prime azioni delle Brigate rosse - il sequestro del dirigente Siemens Idalgo Macchiarmi a Milano, le azioni di contropotere nelle fabbriche - divenne un varco che portò a una divaricazione crescente tra l'ala milita- rista di Lotta continua e quella movimentista. Da quel varco uscì l'intero gruppo dirigente di Prima Linea, fondata da Robertino Rosso, e che sul piano della lotta armata contese spazio (e vittime e arruolamento) ai brigatisti lungo tutti gli anni di piombo che si sarebbero dispiegati fino e oltre il sequestro Moro, con gli omicidi in serie, le carceri speciali, le leggi d'emergenza, il pentitismo. Ma non è ancora tutto. Per capire cosa resta, cosa si è sedimentato di quella storia conclusasi 20 anni fa a Rimini, non basta rammentarne le due derive il movimentismo creativo e l'impazzimento guerrigliero - ma annotare la terza che potremmo chiamare: spregiudicatezza politica (in senso buono e cattivo) e ricchezza culturale (in senso buono e cattivo). Di tutte le organizzazioni extraparlamentari, Lotta continua, è l'unica a vivere un presente se non perpetuo, almeno ciclico. Fu un movimento collettivo che almeno per due episodi - l'omicidio di Luigi Calabresi e l'esecuzione di Mauro Rostagno - ha rischiato di essere ridotto a banda armata. Una banda armata particolarmente odiosa (per di più) che avrebbe saputo tutelare il suo livello occulto nel corso degli anni (e delle carriere) dei suoi molti dirigenti accusati di essersi trasformati in una lobby omertosa. Ma è difficile pensare a segretezze e compartimentazioni, nella grande cagnara che fu (anche) quell'organizzazione. Perfino le sue componenti più dure - le sezioni di Sesto San Giovanni e delle grandi fabbriche del Nord che uscirono in massa - argomenta¬ rono le loro ragioni guerrigliere in pubblico, specie a Rimini, prima e dopo interventi sull'orgasmo clitorideo, e il maschio-padrone, e il diritto all'ozio, e la qualità rivoluzionaria del desiderio. Dall'enorme contenitore, Lotta continua si disperse in cento rivoli che avrebbero alimentato culture e stili di vita assai differenti tra loro, dall'ambientalismo al volontariato cattolico, dalla politica professionale al misticismo, dall'impegno al disimpegno, o come si disse allora, al riflusso nel privato. Contraddittoria e anche spregiudicata, le schegge della sua galassia, hanno avuto un sovrappiù di visibilità grazie al giornale, il quotidiano Lotta Contìnua, che ebbe vita e avventura propria. E sebbene lo dirigesse Enrico Deaglio, sebbene ci scrivessero gran parte degli ex leader dell'organizzazione, da Sofri a Guido Viale, da Luigi Manconi a Franco Travaglini, da Marco Boato a Mimmo Pinto, ha ragione lo scrittore Erri De Luca quando dice: «Per me Lotta continua è finita nel '76, tutto il resto, a cominciare dal giornale, non mi ha più riguardato. Era un'altra cosa, un'altra storia». Quell'esperienza giornalistica - che divenne scuola per molti poi transitati ai vertici dei più diversi giornali italiani da Claudio Rinaldi a Gad Lerner a Paolo Liguori - è forse una delle eredità più presenti di quella «cultura comune» che oggi viene semplificata nella sigla dell'organizzazione. Ha detto Sofri: «La componente dei rapporti umani fu molto più forte e decisiva di quella ideologica». Anche quando le storie - «dei molti che furono giovani uno accanto all'altro» - hanno intrapreso strade opposte. Partiti tutti insieme da Che Guevara, Lenin, Pasolini, Guy Debord e Sciascia, transitati dentro e fuori le scuole («I collettivi politici»), dentro e fuori le carceri («I dannati della Terra»), dentro e fuori le caserme («I proletari in divisa»), c'è chi è approdato a Silvio Berlusconi, passando per Claudo Martelli e Bettino Craxi. Per esempio nella stagione del quotidiano Reporter, primi Anni Ottanta, quando a Sofri, Deaglio, Carlo Panella, Andrea Marcenaro, Roberto Briglia sembrava che usare i soldi dei socialisti, progettare msieme con i socialisti, fosse una via praticabile per rompere l'asfissiante saldatura cattocomunista generata (anche) dagli anni di piombo. Spregiudicato, ma giusto (secondo loro), rischioso, ma legittimo. Lotta continua durò sette anni. Nacque dentro l'università di Pisa e davanti ai cancelli di Mirafiori. Occupò case, scuole, fabbriche e piazze. Tirò bottiglie incendiarie e fiori ai funerali dei propri militanti. Propagandò l'insubordinazione di fabbrica contendendo ai sindacati («venduti!») la rabbia operaia. Alimentò nelle scuole lo spontaneismo e i sogni ragazzini di insurrezione. Scelse come proprio simbolo le barricate della Comune di Parigi e un pugno chiuso. Però è stata anche molte altre cose, per esempio una via d'uscita dalle barricate e persino una mano aperta. «La sua anima - ha scritto Luigi Bobbio in una ormai mtrovabile Storia di Lotta Continua - era fluida, ottimistica, sostanzialmente libertaria». Ma le anime sono fatte di candore e il candore è fatto per lasciarsi sporcare dalla vita vera, che può fare irruzione con grande potenza, specie quando diventa terremoto. Pino Coirias Così finì una stagione di discussioni e violenze libertà e ingenue utopie L'avventura di una generazione da Sofri a Rostagno a Robertino Rosso che fondò Prima Linea; dai giornalisti Enrico Deaglio, Rinaldi, Lerner eLiguori, a Erri De Luca e Luigi Bobbio Una manifestazione di «Lotta continua» negli Anni Settanta