Le trappole del Welfare State di Massimo Giannini

L Le trappole del Welfare State Quando V«uguaglianza» genera miseria UN MODELLO IN CRISI ojnarajroa motti rw ni L ROMA A miseria genera odio» era l'epigrafe che Sir William Henry Beveridge appose ad uno dei due progetti con i quali, tra il 1942 e il 1944, inventò lo Stato sociale nella Gran Bretagna di Churchill: dando un'impronta nuova al secolo, tracciando un solco che altri Paesi d'Europa avrebbero poi arato con alterne fortune. Ma che succede se nel tempo e alla prova dei fatti è proprio il rimedio (il modello del «Welfare State» occidentale, minato dal tracollo demografico e dai deficit pubblici) una delle cause più importanti del male (l'impoverimento economico, e dunque l'invidia sociale, a danno delle generazioni future)? Se lo chiedono tutti, e tutti cominciano a darsi risposte, dalle classi dirigenti conservatrici di Germania e Francia a quelle più inclini al solidarismo socialdemocratico, dalla Svezia all'Inghilterra di Tony Blair. Tutti danno risposte, meno che noi italiani che ne avremmo invece più bisogno. E che non sappiamo andare al di là delle accorate ma inutili prediche di Ciampi e di Fazio, delle preoccupate esortazioni di Agnelli e di Fossa, del sordo «niet» sindacale e delle sconcertanti fughe in avanti di Walter Veltroni. Sabato al convegno confindustriale di Capri il vicepremier s'era sbilanciato, generoso ma generico come al solito, proponendo un ripensamento del Welfare State e soprattutto un anticipo al '97 (anziché nel '98) dei tempi di verifica della riforma sulle pensioni. Con il che anche il vertice di ieri tra governo e sindacati sulla Finanziaria aveva fatalmente finito con il caricarsi di nuove tensioni, di significati politici importanti. Hai visto mai - veniva quasi da chiedersi - che oltre a spiegare a Cgil-Cisl-Uil i tanti punti ancora oscuri della manovra, Prodi tenta finalmente di aggredire il sacro «totem» previdenziale, forzando la mano - una volta, almeno una volta - a Bertinotti e ai sindacati? Interrogativo legittimo, dopo la sortita di Veltroni. Ma invece niente. Il problema, se mai è esistito per il governo, è stato ri- mosso: Walter ha fatto la sua brava retromarcia - come già accadde a fine agosto, dopo le sue improvvide dichiarazioni su Maastricht - e i sindacati hanno risotterrato l'ascia di guerra che avevano brandito fino a ieri mattina contro la Finanziaria. Pur non avendo ottenuto, a quel che si vede, i chiarimenti che avevano chiesto, per esempio suU'«una tantum» per l'Europa. Se ne riparla il 12 novembre prossimo. Nel frattempo, nel teatrino virtuale della politica nulla pare realmente accaduto, compreso il boom del deficit dell'Inps. Tutto è stato solo una «tempesta in un bicchiere d'acqua», come ha detto il sottosegretario al Tesoro Laura Pennacchi, rilanciando un refrain ormai abituale per Prodi: tempeste in un bicchier d'acqua erano già state lo scontro sulla tassazione delle rendite finanziarie, quello sulle tasse sulla casa, poi quello sulle aliquote Irpef. Fosse davvero tutto così facile, ci sarebbe davvero da mandare un'ambulanza a Bonn, e far internare il cancelliere Kohl, che a meno di un anno dalle elezioni tedesche annuncia un nuovo, doloroso ma necessario ridisegno dello Stato sociale. E invece, purtroppo, ha ragione lui, che pure guida un Paese nel quale il sistema dei servizi e delle garanzie pubbliche funziona molto meglio del nostro, e non genera i disavanzi ai quali invece noi siamo ormai abituati. Eppure taglia, riforma anche lui, dall'assistenza sanitaria alle pensioni. Perché, come ha ricordato il governatore della Banca d'Italia Fazio, che pure non punta certo ad abbattere lo Stato sociale, «lo squilibrio dei sistemi pensionistici e la crescita del debito previdenziale presentano in prospettiva carattere e dimensioni preoccupanti in tutti i Paesi avanzati». Il problema è chiaro, per un banchiere centrale catto¬ lico come Fazio, ma anche per i cervelli migliori della Sinistra: da Giuliano Amato a Massimo D'Alema, ormai convinto dell'esigenza di trasformare il «sistema delle garanzie» in «sistema delle opportunità». E persino nella Cgil c'è un Bruno Trentin, memoria storica del sindacalismo italiano dopo la scomparsa di Lama, che fa autocritica: il Welfare State, al contrario di quello che si prefiggeva fin dal disegno beveridgiano, genera «miseria», non uguaglianza. Questo, in Italia, vale più che altrove, dati tre handicap di partenza: un bilancio pubblico disastroso fino ai primi Anni 90, con un saldo primario negativo per 30 anni e il relativo accumulo di un debito stratosferico, una spesa sociale prevalentemente concentrata sui pensionati, la fascia di popolazione in maggiore espansione numerica e con una spesa sanitaria in media pari a 4,2 volte quella degli altri cittadini, e infine una natalità bassissima, insufficiente a mantenere costante la popolazione. Questi tre fattori pesano come un'ipoteca sul futuro della politica economica, visto che le pensioni e gli interessi sul debito rappresentano oltre 1/4 di Pil e più di metà della spesa pubblica. Uno squilibrio del genere, che esiste solo in Italia, sottrae sempre più risorse, più servizi, più trasferimenti ai giovani e ai cittadini in età lavorativa. Questo corto circuito finanziario e sociale si produce principalmente sulle pensioni, a causa delle occasioni perdute con la riforma Dini del '95 - che ha fatto salve molte garanzie e ha previsto un'uscita troppo blanda sul piano temporale dalle pensioni d'anzianità - e della preferenza data dal legislatore al sistema «a ripartizione». Cioè quello in base al quale le pensioni erogate in un dato periodo sono finanziate dal prelievo operato sui lavoratori attivi, con l'obiettivo di raggiungere un effetto di «solidarietà generazionale». Purtroppo, soprattutto a causa del crollo demografico e della caduta della forza lavoro attiva, questo effetto non c'è stato, e si è invece prodotto quello che un ex sindacalista come Giuliano Cazzola definisce «una trappola insidiosa e accattivante», perché suscita nel lavoratore attivo l'illusione di precostituirsi la propria pensione attraverso il pagamento di contributi, che invece costituiscono la rendita mensile di chi è già pensionato. Ecco perché, alla fine, le generazioni future sono rimaste quasi prive di garanzia. E a confermarlo ci sono i più recenti studi dell'Ocse sulla cosiddetta «contabilità generazionale» che - attraverso complessi meccanismi di calcolo - confronta il trattamento economico riservato dalla finanza pubblica alle diverse generazioni di cittadini. In base alle conclusioni raggiunte, in tutti i Paesi esiste uno squilibrio tra il dare e l'avere delle genera- zioni. Ma lo squilibrio più alto si registra in Italia: per sanarlo occorrerebbe un taglio della spesa pubblica pari a 12 punii percentuali di Pil, contro 4-5 punti necessari negli Usa, 2-3 in Norvegia e Svezia, 1,5 in Germania. Daniele Franco, esperto della Commissione Europea, ha fatto una simulazione, ipotizzando: 1 ) l'esistenza di due generazioni viventi (genitori e figli, che vivano 80 anni di cui 20 di studio, 40 di lavoro e 20 di pensione); 2) la prima generazione sia nata nel 1935, abbia lavorato dal 1955 al 1995, sia in pensione dal 1995 al 2015; 3) la seconda generazione sia nata nel 1975 e lavori dal 1995. I risultati: la prima generazione nata nel '35 ha fatto meno figli, si è data ottime pensioni (la spesa previdenziale è salita dal 5 al 15% del Pil tra 1960 e 1995), prima di andarsene in quiescienza ha varato due riforme che salvaguardano i suoi trattamenti e tagliano quelli dei lavoratori più giovani, e ha aumentato il disavanzo primario e l'indebitamento. La seconda generazione nata nel 1975, meno numerosa, ha pessime pensioni, deve continuare a finanziare un'alta spesa previdenziale e conseguire avanzi primari crescenti a colpi di nuove imposte. E' così che si è consumato, e si sta tuttora consumando, lo «scellerato patto» tra le generazioni. Vale la pena difenderlo, nell'illusione che serva a tutelare i «deboli»? Se fosse vivo, Sir Beveridge ne dubiterebbe. E il governo dell'Ulivo? Massimo Giannini