II disonore di chiamarsi Brusca

II disonore di chiamarsi Brusca I due fratelli, da padroni di San Giuseppe Jato, a protagonisti di una guerra familiare II disonore di chiamarsi Brusca Nel paese dei due boss fanno i conti con il passato DOVE COMANDAVA COSA NOSTRA aPALERMO UEI bravi ragazzi erano i padroni del paese. Quando andavano in giro, Emanuele, Giovanni ed Enzuccio, i maschi di casa Brusca, le coppole saltavano, i sorrisi si spalancavano, le strette di mano si sprecavano. Il merito di tanto rispetto - per la verità non era tutto loro. A San Giuseppe Jato, novemila abitanti a 30 chilometri da Palermo,- la devozione popolare l'avevano ereditata, assieme ad un cospicuo patrimonio, dal nonno: don Emanuele Brusca, classe 1896, il vecchio patriarca del paese. Di mestiere faceva l'allevatore. Parlava poco, era violento, e decideva tutto quello che c'era da decidere. Un giorno, a sessant'anni suonati, si stancò di passare per un «sacconaro», un quaquaraqua, e decise di prendere il posto del boss locale, Antonino Salamone. La polizia lo schedò con la M di mafioso. Ma da quel giorno, la gente che viveva alle falde del Monte Jato - tutti braccianti, artigiani e morti di fame - lo considerò un padreterno. Questo perché, alla fine degli Anni Cinquanta, don Emanuele rappresentava l'autorità in un paese poverissimo che lo Stato non sapeva neppure cosa fosse. C'erano - è vero - i contadini «rossi», quelli che avevano guidato l'occupazione delle terre e rifiutavano in toto la violenza mafiosa. Ma Brusca era il padrino di una mafia arcaica che prima di tutto cercava il consenso. Proteggeva gli amici, prestava soldi ai padri di famiglia, componeva le liti. Se poi, in segreto, minacciava i sindacalisti, perseguitava i braccianti «rossi», si accaparrava le terre a prezzi stracciati, pazienza. Ogni medaglia ha il suo rovescio e - tutto sommato - la gente pensava che è meglio essere sudditi piuttosto che essere abbandonati a se stessi. Suo figlio Bernardo, classe 1929, capì che la forza della mafia stava proprio nel consenso popolare. Ed anche se era molto occupato con la mattanza scatenata dall'amico Totò Riina, non lasciò mai, neppure per un giorno, il suo paese. Mise due vedette ai lati della montagna, per controllare chi entrava e chi usciva. Costruì la villa bunker di contrada Feotto, sposò la cugina Antonina, allevò i tre figli maschi e, prima di finire all'Ucciardone, raccomandò loro di seguire l'insegnamento del nonno. Quei bravi ragazzi non hanno mai dimenticato la lezione. Emanuele, Giovanni ed Enzuccio Brusca, il paese di San Giuseppe Jato, l'hanno sempre avuto e ce l'hanno ancora nel cuore. E, in qualche modo, l'omaggio è stato sempre ricambiato. Non per mafiosità dilagante, come qualcuno - stupidamente - vorrebbe far credere. Ma perché la storia passata di quel minuscolo presepe di Sicilia - fondato alla fine del Settecento dal principe di Camporeale Giuseppe Beccadelli è popolato da una colonia di ex galeotti - è quella di un territorio senza garanzie, senza diritti, senza speranza. Dove Cosa nostra ha seminato il terrore, ma ha anche costituito un'alternativa - l'unica - all'assenza di regole, all'assenza di Stato. Così raccontano, tra i vicoli, i paesani che hanno l'età per ricor¬ dare i tempi della paura e della miseria. A San Giuseppe Jato, Emanuele, 42 anni, detto «Il dottore» per i suoi studi di medicina, Giovanni, 39 anni, ed Enzo Salvatore, 28 anni, avevano lanciamissili, Kalashnikov e bidoni di acido per sciogliere cadaveri. E - come il nonno - avevano anche l'ossequio dei compaesani. Se entravano in un bar, c'era sempre qualcuno che gli pagava un caffè. Enzo, giocatore di schedine, trovava soci di scommesse a volontà. Emanuele, l'intellettuale di famiglia, distribuiva consigli e raccomandazioni. Ma il più vezzeggiato era proprio Giovanni Brusca, l'uomo accusato di aver premuto il telecomando della strage di Capaci. Da bambi¬ no, faceva il chierichetto nella chiesa del paese. D'adulto, sfoggiava camicie firmate e orologi di platino. Gli piaceva farsi notare. Prima di dedicarsi allo stragismo, era un ragazzo spensierato: il cugino Jo Brusca, titolare di una parruccheria in via Badia, ricorda che «andava in giro a fare gavettoni, organizzava feste da ballo e grandi mangiate in campagna». E trovava pure il tempo di fare il pilota d'automobile: partecipando, ogni anno, al mitico Rally della Conca d'Oro. Oggi i ragazzacci di casa Brusca sono rinchiusi nelle patrie galere. Le loro strade si sono divise: Giovanni ha tentato di beffare lo Stato fingendosi pentito; Enzo lo ha sconfessato e si è messo contro Cosa nostra. Ma a cantare pubblicamente vittoria, sono in pochi. Tra questi, Maria Maniscalco, il sindaco del pds, che da qualche anno tenta di riportare la legalità alle falde del Monte Jato: «Il paese - dice - sconta una tradizione di subalternità alla cultura mafiosa. Ma sono sempre più numerose le persone che prendono le distanze da Cosa nostra e dai suoi sgherri, si chiamino Brusca o in qualunque altro modo». Due anni fa, i soliti ignoti le hanno bruciato la macchina. A San Giuseppe Jato, che comincia a masticare il vocabolario dell'antimafia e rifiuta l'etichetta di «paese colluso», il passato è duro a morire. Sandra Rizza Il sindaco: sono sempre più numerose le persone che adesso riescono a prendere le distanze dalla mafia e dai suoi sgherri Nella foto grande un'immagine di Giovanni Brusca al momento dell'arresto. A sinistra scritta sul muro a San Giuseppe Jato dopo la cattura del boss

Persone citate: Antonino Salamone, Camporeale Giuseppe, Emanuele Brusca, Enzo Salvatore, Giovanni Brusca, Maria Maniscalco, Sandra Rizza, Totò Riina

Luoghi citati: Capaci, Palermo, San Giuseppe Jato, Sicilia