La trappola della famiglia di Sergio Romano

della l La trappola della famiglia Il nuovo libro di Sergio Romano. Tra interessi particolari e riforme istituzionali: perché l'Italia non riesce a diventare moderna? NEL 1918 l'Italia vince la guerra, ma viene sconvolta da agitazioni sociali; nel '45 esce dal fascismo, ritorna alla democrazia, ma non riesce poi a metabolizzare il passato; all'inizio degli lAnni 90 è tra i maggiori Paesi industrializzati, ma non sfugge alla morsa del debito pubblico e della corruzione. Tre momenti distinti, ma in qualche modo simili? Sergio Romano, nel suo Le Italie parallèle (che sta uscendo da Longanesi) si chiede perché il nostro Paese si trovi sempre, paradossalmente, nella stessa situazione di vincitore e sconfitto. Di fronte a ogni traguardo importante, l'Italia rischia di perdere il treno, scontrandosi con le deficienze della classe politica, le debolezze istituzionali, l'impossibilità di coordinare riforme radicali. Nel capitolo che pubblichiamo, Roman./ analizza un male tutto nostrano; il potere delle «famiglie», delle corporazioni, delle nomenklature, più disponibili al compromesso che al cambiamento. <r || Italia è ancora, nonostante " il suo sviluppo, una costellazione di «famiglie», e l'i; I I taliano, a dispetto della J=_J sua immeritata reputazione, non è individualista, ma «corporativo». Le famiglie o corporazioni possono essere politiche, economiche, giudiziarie, aziendali, professionali, sindacali o addirittura, come nel caso della mafia, criminali. Come le uova di Fabergé, ogni corporazione ne contiene altre più piccole, e ogni italiano può essere membro contemporaneamente di numerose corporazioni. Il modello della corporazione è la famiglia naturale o, per meglio dire, la gens romana, vale a dare qualcosa di mezzo tra la piccola famiglia degli anglosassoni e le grandi tribù mediorientali. E vi sono casi, come quello del capitalismo dinastico, in cui la corporazione coincide con la famiglia naturale. fi nome della corporazione cambia a seconda delle circostanze. Si chiama «sindacato» quando è composta da bidelli, uscieri, tipografi, personale amministrativo, orchestranti, maestri di scuola elementare, docenti di scuola media e precari di varia natura. Si chiama «corpo accademico» quando è composta da professori universitari. Si chiama «ordine professionale» quando è composta da avvocati, giornalisti, architetti, medici, farmacisti, commercialisti. Si chiama «carriera» quando è composta da diplomatici. Si chiama «Forze armate» quando è composta da militari. Si chiama «Confindustria» o «associazione industriali» quando è composta da imprenditori. Gli «strumenti di lavoro» Ma i metodi, la natura e le ambizioni di queste famiglie sono fondamentalmente gli stessi. I loro strumenti di lavoro sono lo sciopero, il manifesto, l'appello, il proclama, lo stato d'agitazione, il comunicato e, quando ne hanno la forza, la pressione discreta esercitata al momento opportuno sui punti nevralgici del potere. Il loro principale obiettivo è quello di appagare se stesse. Un museo, un teatro, una facoltà universitaria, un ordine professionale e un centro di ricerche devono soddisfare le ambizioni di coloro che ne fanno parte, non quelle della società per cui sono stati creati. Le istituzioni, in Italia, non appartengono né allo Stato, quando sono pubbliche, né a coloro per cui sono state create. Non rispondono di ciò che fanno né allo Stato proprietario né al cittadino consumatore: appartengono alle nomenklature, ai tribuni e ai rappresen¬ tanti sindacali delle categorie che vi lavorano o possono trarne qualche vantaggio. Può accadere che la corporazione abbia una coloritura ideologica e che avanzi le sue richieste in nome di un «progetto» politico o di un principio generale. I professori universitari chiedono una università «democratica». I giudici, una «magistratura democratica». I registi cinematografici reclamano sussidi in nome della difesa della cinematografia nazionale. I dipendenti di un ente chiedono maggiore «partecipazione». I giornalisti avanzano le loro richieste in nome dell'autonomia e della dignità della loro professione. I calciatori si oppongono al reclutamento di sportivi stranieri in nome dell'identità dello sport nazionale. Gli industriali chiedono sus sidi e finanziamenti in nome delta difesa dell'economia nazionale. Ma l'ideologia e i grandi principi sono soltanto la bandiera con cui la corporazione riveste le proprie ambizioni o, meglio ancora, il pretesto di cui un gruppo si serve per scalzare l'altro. Uno storico francese che studiò le «società di pensiero» in Francia prima della rivoluzione, Augustin Cochin, si accorse che esse erano teatro di continue lotte tra fazioni concorrenti e che alla fine di queste lotte il gruppo più radicale prendeva generalmente il sopravvento sul gruppo più moderato. Così accade spesso nelle corporazioni italiane. L'ideologia, soprattutto nelle sue espressioni più radicali, serve anzitutto a sconfiggere l'avversario e a prenderne il posto. E' la bandiera con cui i giovani si sbarazzano dei vecchi e le minoranze scalzano le vecchie maggioranze. Quante battaglie sono state fatte negli ultimi cinquant'anni in nome dell'antifascismo e della democrazia. Ma l'obiettivo, dietro il nobile schermo delle motivazioni ideali, è più semplicemente quello di conquistare il controllo della «famiglia» e di sfruttarne l'influenza. Il vero ideale della corporazione italiana non è il pretesto retorico o l'alibi ideologico con cui essa giustifica le sue battaglie. E' il «numero chiuso», il tariffario certificato dallo Stato e soprattutto l'«Albo», vale a dire il diritto di esercitare il controllo sul reclutamento dei nuovi membri. In alcuni casi (giornalisti, funzionari dello Stato, docenti universitari) il reclutamento avviene per esami e concorsi. Ma fra il nepotismo di un professionista, che riserva al figlio lo studio familiare, e il risultato finale di certi concorsi universitari, non vi è in ultima analisi grande differenza. Le relazioni fra le corporazioni sono simili a quelle che intercorrono fra gli Stati sovrani: ostilità, ultimatum, guerre, trattative, armistizi. L'Italia è il Paese dell'Occidente in cui vi è il più alto tasso di diplomazia, quotidianamente praticata da tutte le famiglie-Stato della società italiana. Le guerre si concludono generalmente con tregue, armistizi, patti di convivenza e, se la materia del contendere è economica, con cartelli per la divisione del mercato. Le corporazioni sono rotte a tutti i compromessi, purché non intacchino la loro sovranità. L'Italia è mal governata perché il malgoverno, per le corporazioni, è sempre meglio di un sistema politico in cui qualcuno, al vertice dello Stato, proclami la superiorità dell'interesse generale e della libera concorrenza sugli interessi particolari e sui patti di spartizione. E' questa la ragione per cui molti italiani, a dispetto delle loro professioni di fede liberale, non amano le regole impietose del mercato. E' questa la ragione per cui molti, a dispetto del loro apparente malumore, tollerano la sciatta e opprimente burocrazia dello Sta¬ to centrale e delle Regioni. Perché sanno, in cuor loro, che la concorrenza e il primato delle legge (la «rule of law» del linguaggio politico anglo-americano) indebolirebbero le corporazioni e che l'efficienza dello Stato intaccherebbe prima o dopo il loro potere. Dallo Stato cattivo, del resto, ci si può sempre difendere ricorrendo alla propria famiglia, vale a dire a una rete di amicizie e di solidarietà che permette di aggirare gli ostacoli, scavalcare le norme e ottenere comunque il permesso, la licenza o il favore desiderati. Accanto all'Italia delle famiglie si è gradualmente allargata durante gli anni dello sviluppo un'Italia diversa composta dai ceti emergenti di mia società nuova. Sono persone che hanno studiato all'estero, hanno osservato il funzionamento di altri sistemi politici ed economici, lavorano sui ^mercati internazionali e fanno ; i.- mestieri nuovi, regolati da norme che obbediscono alle regole del merito e della concorrenza. Il notaio, una delle più antiche professioni italiane, è perfettamente a suo agio nel ginepraio delle regole scritte e non scritte che governano gli equilibri fra le corporazioni. Ma chiunque lavori per l'esportazione o debba misurarsi con la concorrenza internazionale sopporta con fatica e impazienza le regole di una società che non è più la sua. Il contrasto fra la società chiusa delle corporazioni e la società aperta dei ceti emergenti divide il mondo poltico secondo frontiere che non corrispondono necessariamente a quelle dei partiti. Vi so• no forze quasi comple¬ tamente ostili alla prospettiva di una grande riforma costituzionale, come il Partito popolare, erede della Democrazia cristiana. E vi sono forze apparentemente favorevoli alla creazione di una Repubblica presidenziale, come Alleanza nazionale, erede del Movimento sociale italiano. Ma la frontiera tra i conservatori e gli innovatori passa generalmente all'interno dei partiti e delle coalizioni. La nuova legge elettorale, parzialmente maggioritaria, che il Parlamento ha adottato dopo il referendum del 1993, ha sollecitato i partiti a coalizzarsi per meglio vincere le elezioni. Ma sul tema delle riforme ciascuna delle due coalizioni (quella di sinistra assai più di quella di destra) è un coro di voci discordanti. Non basta. Ogni forza politica, anche se prevalentemente riformatrice, è preoccupata anzitutto dal timore di avallare riforme che riducano il suo seguito elettorale, diminuiscano la sua influenza e la privino del diritto di veto di cui ancora gode. Esiste una terza forza, la Lega Nord, che dovrebbe essere, in questo campo, riformatrice e innovativa. Ma ha sempre intralciato, di fatto, la strada della riforma costituzionale. Aveva di fronte a sé, sin dall'inizio, due prospettive. Poteva aspirare al governo del Nord, nell'ambito di mio Stato federale, come la Csu governa la Baviera e Convergenza e Unione di Jordi Pujol governa la Catalogna. E poteva puntare alla disintegrazione dello Stato come il presidente slovacco, Vladimir Meciar, in Cecoslovacchia. Quel virus «federalista» Per un lungo periodo ha cambiato obiettivo saltando da un cavallo all'altro, a seconda delle circostanze. Sembra avere scelto la seconda prospettiva quando si è accorta che il suo seguito, per quanto importante, non le avrebbe garantito di governare il Nord e di trattare con Roma come Pujol tratta con Madrid. Da allora le sue proposte riformatrici - federalismo, Assemblea costituente, referendum - sono state sempre avanzate controtempo. La proposta è utile, in altre parole, quando non è condivisa dalle altre forze politiche. Diventa inutile nel momento in cui altre forze se ne impadroniscono e la sottoscrivono. La Lega non vuole riformare lo Stato. Vuole dimostrare che lo Stato non è riformabile. Dopo avere rinunciato a essere il medico federalista dello Stato nazionale, ne è diventata il virus e cerca di accelerare il corso della malattia. Come tutte le forze eversive ha una doppia strategia: aggressiva all'esterno, boicottatrice e sabotatrice all'interno. I due volti della sua strategia sono perfettamente rappresentati dai due volti di Umberto Bossi, ora ironico, scettico, imperturbabile, ora concitato, travolgente e «pasionario». Così fu il fascismo tra il 1919 e il 1925. E così fu Mussolini, perfettamente in grado di eccitare le masse alla rivolta e di accogliere i visitatori stranieri in giacca nera e calzoni rigati. E come Mussolini Bossi prevarrà alla fine soltanto se le altre forze politiche saranno incapaci di accordarsi su un progetto riformatore. Sergio Romano Per questo è meglio una burocrazia piatta, sempre più «comoda» di leggi efficienti Dallo Stato cattivo ci si difende con amicizie, favori e compromessi Le corporazioni preferiscono il malgoverno alle regole impietose del mercato e della concorrenza . ... . wmmmm. 'm«m tipi! . I dihiedono . I giorrichieste della die. I calreclutari in nort naziono sus me delta gli ostacottenerela licenzAccansi è grarante glitalia divemergenSono peall'esterzionameci ed e^mercati ; i.- • Da sinistra, un'immagine di Montecitorio; Umberto Bossi e Mussolini