Andraus il killer tornato dall'inferno

Andraus, il killer tornato dall'inferno Andraus, il killer tornato dall'inferno E' condannato all'ergastolo: «Ma grazie a mia figlia ho spento l'odio che era in me» BASIGLIO (Milano) DAL NOSTRO INVIATO Vincenzo Andraus ha ucciso tre volte e tre volte è morto. L'ultima per rinascere davvero anche se il suo unico documento dice: «Ergastolano: fine pena, mai». Ha rapinato banche, uffici postali, ma pure la sua stessa vita: «Sto al mondo da 42 anni e 22 li ho passati in carcere». Dei suoi ricordi dice: «Stanno alle mie spalle, in fila per due, come un plotone di esecuzione». Nella sua lunga stagione all'inferno ha vissuto divorato dall'odio. Ha ucciso un vigile durante una rapina a Milano. Ha ucciso Francis Turatello nell'ora d'aria di Bad'e Carros e lo slavo Bozidar Vulcevic durante una rivolta a Novara. A lui è toccato altrettanto. In quella rapina a Milano non voleva arrendersi, «ma morire con le armi». I poliziotti lo circondarono centrandolo sette volte. Era il '76. Dieci anni più tardi, nel braccio speciale di San Vittore, tre detenuti rivali armati di cucchiai appuntiti e schegge di legno se lo lavorarono per 50 secondi. Ne uscì con 47 ferite, e la vita appesa al filo dei 380 punti di sutura. L'ultima volta che Vincenzo Andraus è morto stava davanti a sua figlia Yelenia, che allora aveva 13 anni. «E' grazie a lei, alla mia principessa, che ho seppellito davvero la mia prima vita». Venne a trovarlo una mattina del 1987, sala colloqui di San Vittore, tra loro due il vetro blindato e un microfono. «Venne e mi disse due cose: papà devi decidere se la tua famiglia sono io o sono loro, i detenuti. E se deciderai che sono io, dimmi perché hai ucciso». Lui decise. Così, dopo il sangue, due evasioni, le rivolte, i cinque anni passati sepolto vivo dentro ai braccetti della morte, dopo «la rabbia e la cecità», Andraus ha imboccato «la via della testa e del cuore». Ha cominciato a leggere, studiare, scrivere. Nello speciale di Voghera, nove anni fa, ha fondato il Collettivo Verde che è una delle esperienze più vitali del carcerario italiano: autoresponsabilità dei detenuti, reciproco sostegno, scuola, corsi di formazione. Ha scritto poesie, un dramma, «Il Maratoneta», e sta finendo la sua autobiografia. Da quattro anni ha un lavoro esterno che gli consente di stare nove ore al giorno fuori dalle sbarre. Una volta al mese, in permesso, tiene conferenze nelle scuole, partecipa a dibattiti sul carcere. Riceve decine di lettere al giorno, specie dai ragazzi che lo hanno ascoltato almeno una volta. L'ho incontrato una sera in un paesone dell'hinterland, dove avrebbe parlato per due ore, nella sala consiliare del Comune, davanti a una cinquantina di ragazzi. E' arrivato alle nove. Alto, spalle grosse, giacca militare verde, camicia sgargiante, i capelli lunghi, i baffi, la voce dura. Atletico, nonostante i guai. «Ciao - dice -. Possiamo parlare un'ora alla fine. Devo rientrare in carcere all'una e se faccio tardi mi ammanettano». Ride: «Vuoi un caffè?». Cominciamo dall'inizio, Andraus. «L'inizio per me è Cavalcasene, un paesino del Veronese. Ci arrivai a nove anni. Io e mia madre venivamo da Catania, era il '63. Mio padre ci aveva piantati, non avevamo una lira: vita dura, in un posto duro. I ragazzi cominciarano a chiamarmi "il terrone" e io feci una scoperta». Che genere di scoperta? «Che per non subire bastava rispondere con la violenza. Sembra niente, ma quella scoperta mi accecò. Più reagivo, più ottenevo. Non ero più il terrone, né il povero, né lo sbandato: la paura degli altri mi dava la forza dì cui avevo bisogno». A nove anni? «A nove, a 10, a 14, quando entrai nel riformatorio di Treviso». Come accadde? «Accadde che feci la mia prima rapina. Avevo una banda di ragazzi tutti più grandi di me. Ne scelsi due e andai a prendermi i soldi da un distributore di benzina sulla provinciale». Eri armato? «Una pistola, sì, il benzinaio non si mosse, io riempii il sacchetto e scappammo». Bottino? «Un milione da dividere in tre. La mattina dopo andai con un ragazzo maggiorenne a comprarmi la mia prima macchina, una 500. Ci giravo di notte, con la pistola addosso». Per questo che ti presero? «No. A parte la rapina a Milano del 1976, non sono mai stato preso durante un'azione. Quella volta fu la spiata di una ragazza». Quindi finisci al minorile. «L'inizio della mia escalation perché 0 carcere chiama carcere, ti incallisce. Dai 14 ai 18 anni entro e esco sei volte. A16 ero il padrone di tutto il minorile e avevo conosciuto tutti i canali della malavita. Avevo imparato che i soldi stanno nelle banche e non nei distributori di benzina. Avevo imparato a procurarmi documenti falsi, armi, auto rubate e basi d'appoggio». E appena libero facevi il rapinatore. «Dai 18 ai 20 anni ho vissuto da latitante e non so più quante rapine ho fatto. I soldi non mi bastavano mai. Quando fai il malavitoso i soldi non hanno alcuna importanza, li prendi in un minuto e li spendi in un minuto. Stai dentro a una vita immaginaria, che ti brucia d'ansia, e allora spendi, regali, distruggi... Un malavitoso ha bisogno di tutto: di appartamenti, di documenti, di macchine, di donne. Ma soprattutto ha bisogno di distruggere». Usavi coca, eroina? «Ho provato tutto, ma non l'usavo, no. Quelli che hanno bisogno di cocaina per assaltare una banca, non sono dei rapinatori, ma dei coglioni. Io agivo per istinto e il mio istinto era odiare. Volevo tutto quello che non avevo e perciò andavo a prendermelo». Fino a che non sei rimasto in trappola. «A 20 ero in fondo al burrone e non me ne fregava niente, anche se avevo conosciuto l'unica donna di cui sia mai stato innamorato, la madre di mia figlia Yelenia». Si chiamava Alessandra e morì in un incidente stradale. ((Alessandra morì nel 1982, stava venendo a trovarmi in carcere. Ero pazzo di dolore. Vivevo da un anno nei braccetti della morte che erano quattro in tutta Italia: Torino, Ariano Irpino, Bellizzi Irpino, Foggia. In ogni braccetto c'erano cinque celle. Isolamento totale. Luce sempre accesa, due ore d'aria la settimana, mente tv, proibito parlare, proibito cucinare, un colloquio al mese». E tu cosa facevi? «Urlavo. E facevo 15 ore al giorno di ginnastica per sfiancarmi, ma il sonno non veniva mai». Ci sei stato cinque anni. «E più era duro, più io rispondevo duramente. Il carcere mi ha respirato e sono diventato un pezzo di carcere. E dentro di me ci sono tutti i muri, tutte le sbarre di Trani, Fossombrone, Novara, Cuneo, Ascoli, Asinara, Favignana, Pianosa, Voghera». I tuoi ultimi sei mesi di libertà risalgono al '76 quando sei evaso con Prospero Gallinari. «Gli ho aperto io la cella a Prospero. Stavamo tutti a Treviso, ci siamo impadroniti del carcere, eravamo in 13, metà bierre e metà malavitosi come me. Abbiamo preso le guardie e le armi, ci siamo aperà il portone e in un attimo eravamo in strada, ognuno per sé. La prima macchina che è passata l'ho fermata con un mitra, ho detto scendi e sparisci. Il giorno dopo stavo già facendo una rapina». Quando sei rientrato eri quasi una salma. «Andò così: assaltai il Banco di Roma in via Marcona a Milano. Eravamo in tre. Le volanti ci intercettarono al cambio macchina. Ci bloccarono in fondo a una strada, eravamo circondati, i miei due compagni si arresero, io no, piuttosto che tornare dentro preferivo morire... Così sparai». E successe il finimondo. Cosa ricordi quando ti ferirono? «Non provai dolore. Ricordo il fragore dei colpi e poi intorno a me un silenzio d'acqua». Sai cosa si prova a morire e sai anche cosa si prova a uccidere. «Ti imprigiona un senso di onnipotenza. Di stupefacente onnipotenza. Ho ucciso perché volevo farlo, stava nelle regole che mi scorrevano dentro insieme al sangue. Una volta ho scritto che ho vissuto "un tempo prima del tempo", ogni minuto era la vita intera. Perciò quando ho incontrato Turatello all'ora d'aria l'ho ucciso anche perché prima o poi lui avrebbe ucciso me, ci odiavamo. E allo stesso modo andò con lo slavo, durante la rivolta di Novara». A proposito di Turatello uscì la famosa storia che gli strappasti il fegato... «Se lo inventò un giornalista. E' una schifosa leggenda che mi ha perseguitato per anni». Quando tua figlia ti fece quelle due domande, cos'hai risposto? «Ho abbassato la testa. Ma è da lì che ho cominciato a capire che dovevo scegliere. Che vivevo in un mondo di bugie, rabbia, vittimismo... Non era la società a essere cattiva, la colpa non stava nella povertà o nella mancanza di un padre. E la risposta non la potevo trovare nel carcere e nella violenza. No. Il problema ero io, la colpa ero io, Vincenzo Andraus». E' da lì che sei risalito? «Ci ho messo il mio sangue per uscirne. E migliaia di notti. Poi ho incontrato il cappellano di Voghera, don Giuseppe, ho cominciato a leggere, a studiare. A raccontarmi la verità. Che poi ho raccontato a Yelenia. Le ho detto: io ho una doppia colpa. La prima è che ho ucciso, la seconda è che facendolo ho sempre pensato di essere nel giusto. E' la seconda la più grave. Non voglio giustificazione, né perdoni, ho un debito di sangue, ma voglio scegliere te e la vita». In questi anni è anche cambiato il carcere? «Di sicuro non è più l'arena degli Anni 70 e 80. C'è stata la stagione di Nicolò Amato e poi la legge Gozzini, ci sono stati i politici, specie i brigatisti, che hanno trasmesso consapevolezza, dignità, e cultura anche prima che dichiarassero finita la loro guerra. Li ho conosciuti tutti, Curdo, Vai, Bassi... Io e Franceschini siamo come fratelli, anche se non ho mai condiviso l'utopia che li stava soffocando». Hai trovato la strada, infine. «Una dura salita, sì, che passa attraverso di me, la mia responsabilità, il patto che ho stabilito con la società perché senza gli altri non ce l'avrei mai fatta. C'è un Andraus che è stato e un Andraus che è. E dove c'era l'ansia che mi divorava, qui, tra il collo e il cuore, ora c'è un po' di pace». Pino Corrias «Ho una doppia colpa Ho ammazzato e facendolo credevo di essere nel giusto» Sta finendo la sua autobiografìa lavora fuori dalla prigione e tiene conferenze nelle scuole Dopo omicidi, rapine ed evasioni oggi a Voghera guida uno dei più attivi collettivi carcerari