Cronache del tradimento di Bob di Luigi Grassia

Cronache del tradimento di Bob Cronache del tradimento di Bob Rischia la sconfitta anche nel Texas, dove si vota già UN FEUDO CONSERVATORE AUSTIN DAL NOSTRO INVIATO Nel Texas il 5 novembre è già arrivato. Davanti a un supermarket della capitale Austin, una ragazza con l'altoparlante invita gli acquirenti a raggiungere un pulmino con i colori dello Stato, per votare. Alcuni sorridono soddisfatti, si avvicinano e mostrano i documenti: sanno già tutto. Altri tirano diritto, o chiedono sospettosi: si vota, oggi? Ma per che cosa? Per eleggere il presidente, i parlamentari e i giudici, è la risposta degli scrutatori. Un'occhiata interrogativa (per fugare gli ultimi dubbi) a un agente con la stella luccicante e il cappello da cow-boy: facendo di sì con la testa, è proprio vero, nel Texas si è cominciato a votare dal 16 ottobre con venti giorni di anticipo sugli altri Stati americani. Si chiama «early voting» ed è un sistema pensato per incrementare l'affluenza alle urne, tradizionalmente bassina negli Usa. Molti texani lo conoscono e ne approfittano, per i più resta invece una sco- perta benché sia stato sperimentato per la prima volta nel 1987. Il seggio mobile sul pulmino a caccia di elettori è un ulteriore sviluppo. E in Texas si può votare anche per posta, se si è malati, anziani o in viaggio. Nel suo ufficio al Campidoglio di Austin, Ann McGeehan, vicesegretario di Stato (che vuol dire: ministro) responsabile delle elezioni, può vantare per il Texas «una delle più alte affluenze alle urne d'America. Purtroppo - ammette - con un sistema di voto così aperto, siamo anche al primo posto quanto a numero di ricorsi per irregolarità, da parte dei candidati trombati». Per Bob Dole e i repubblicani la corsa nel Texas doveva essere una passeggiata. Questo è uno Stato solidamente conservatore, che il partito considerava «sicuro». E' stato un brusco risveglio. Nei sondaggi texani, Dole risulta a sorpresa appaiato a Clinton (41% a testa, con Ross Perot al 5%) e altrettanto male vanno molte gare con- vi gressuali e locali. Per i repubblicani, perdere qui sarebbe uno smacco con gravi ripercussioni a livello nazionale. Perciò, pur rassegnati a non vedere Dole alla Casa Bianca, combattono nel Texas fino all'ultimo minuto una delle più incandescenti battaglie elettorali. Al quartier generale repubblicano di Austin il direttore del partito, Royal Masset, spiega come sta fronteggiando l'emergenza: «Consideriamo Austin persa. E' la capitale, e dà lavoro a molti dipendenti pubblici che votano democratico, il partito della spesa. Concentriamo gli sforzi su Dallas e Houston che ci stanno sfuggendo di mano. Non sprechiamo invece denaro per fare propaganda nelle campagne, che restano un nostro baluardo». Masset prova a spostare il discorso sulla splendida campagna elettorale di Phil Gramm, l'idolo dei repubblicani del Texas. Formidabili credenziali da ultra, coautore del programma economico di Reagan, il senatore si presenta adesso con una piattaforma più di «sinistra» che contempla il raddoppio degli investimenti pubblici per trasporti e ricerca scientifica. Straccia nei sondaggi il suo sfidante democratico, il texano-messicano Victor Morales. Ma detto questo, mister Masset non sa o non vuol spiegare perché molti repubblicani del Texas votino per Gramm senatore, ma non per Dole presidente. Se Gramm è un valido candidato, Dole non lo è? Non scherziamo, sbotta il boss repubblicano di Austin: Dole è un candidato «fantastico». E non gli si cava una parola di più. A patto di non essere citati, altri repubblicani di Austin offrono un po' di background. I texani erano sicuri di avere un eccellente candidato presidente proprio in Phil Gramm, ma nelle Primarie il loro eroe è stato massacrato. Forse perché veniva dal Texas, Stato antipatico agli altri americani. Forse perché parla con un pesante accento del Sud. Fatto sta che i repubblicani del Texas sono offesi: questo non li spingerà a votare per Clinton, ma piuttosto che aiutare Dole, molti di loro diserteranno i seggi. Facce allegre fra i democratici di Austin. Il loro leader Jorge Ramirez è soddisfatto di come il partito è riuscito in questo 1996 a mobilitare pro-Clinton il voto degli ispanici: ((La mossa vincente - dice - è stata presentare molti candidati del loro gruppo etnico», che è anche il suo. Ma non sempre questa strategia è andata bene: la corsa di Morales contro Gramm, per esempio, è un buco nell'acqua. Morales, un professore con fama di «liberal», fa una visita-lampo al suo quartier generale. Assai apprezzato dalle donne (anche repubblicane) per il suo aspetto, sorride e ripete il poco incisivo slogan della sua campagna: «Eleggermi, perché no?». Stringe molte mani di suoi attivisti: sono quasi tutte mani ispanoamericane, come le sue. Gramm invece è stato abile a presentarsi come candidato «di tutti». Sposato a una coreana, due figli, il senatore ha impedito ai repubblicani del Texas di imitare quelli della California nell'invocare limiti all'immigrazione. Così ha sottratto ai democratici locali il tema polemico del «razzismo». Ma il segretario democratico Ramirez rifiuta di ammettere che Gramm è un fior di candidato. «Se Morales non fa arrivare il suo messaggio agli elettori texani - dice - è perché ha raccolto solo duecentomila dollari per la campagna. Mentre i ricchi supporter di Gramm ne hanno forniti al senatore nove milioni. Che gara ci può essere?». Luigi Grassia Le campagne restano un serbatoio sicuro ma Dallas e Houston sembrano perdute Nei sondaggi texani Bob Dole (foto) ha perso terreno