Il giorno senza abbraccio Non c'è pace tra le due Israele di Fiamma Nirenstein

Il giorno senza abbraccio Il giorno senza abbraccio Non c'è pace tra le due Israele SULLA TOMBA DEL LEADER TEL AVIV I ERI, come un anno fa (un anno H ebraico, le cui date scorrono tanto misteriose da far divenire il 4 novembre, data effettiva dell'omicidio, un 24 ottobre) il sole splendeva su una grande folla in lacrime. La cerimonia del lutto del Paese avrebbe dovuto costruire l'ultima connessione che la morte crea fra individuo e collettivo, tutto il collettivo. Invece non è stato cosi. «Un anno è passato da quando ti hanno ucciso, nonno - ha detto con gli occhi azzurri puntati dritti sulla tomba di granito il nipote Jonathan - e niente, niente è cambiato. Ti chiedo scusa a nome di tutti quanti quelli che non capirono quanto fosse necessario difenderti, anche nella nostra stessa famiglia, una famiglia ormai triste e stanca». Vicini, stretti l'uno all'altro sul monte Herzl, dove sono sepolti gli eroi d'Israele, Leah, la moglie, il figlio Yuval, la figlia Daliah, la nipote Noah, e i due più stretti collaboratori di Rabin, anche loro con gli occhi pieni di lacrime e di rabbia, Shimon Sheves e Eitan Haber. Il presidente Ezer Weizman, il premier Netanyahu e tanti altri personaggi di primo piano non hanno parlato alla cerimonia ufficiale, ma solo alla seduta speciale del Parlamento. E infine, no, non è stato un grande abbraccio del popolo ebraico nel dolore questa durissima giornata di ricordo di Yitzhak Rabin, ma un ripercorrere le ferite, le spaccature sanguinanti di una divisione che da un anno a questa parte si è semmai incancrenita piuttosto che guarire. Lo sforzo di unificare, di fare di questo giorno un momento di conciliazione c'è stato sia da parte di Netanyahu che di Weizman, come da parte di altri politici e intellettuali. Meno del previsto le parole «asatà» e «alimut», incitamento e violenza, sono state ripetute. Eppure, ogni volta cadevano come pietre a segnare un confine. E' stato senza dubbio un assassinio politico in piena regola, maturato in un ventre infetto e tuttora fertile, hanno ripetuto sia Leah Rabin sia la figlia Daliah, sia il figlio Yuval e anche Amos Oz e anche gli altri più cari amici di Rabin, ogni volta che ne hanno avuto l'opportunità, nei discorsi pubblici, a Gerusalemme davanti alla tomba, a Tel Aviv nel tempio della sinistra colta, alla radio e alla tv. E più che le parole hanno potuto gli sguardi: ogni volta che Netanyahu o Sharon o qualche politico religioso-nazio- nalista, si trovava a contatto d'occhi con Leah e gli altri, i bellissimi occhi della famiglia Rabin, colore del cielo, diventavano una sottile linea diritta, piena di ghiaccio e di fuoco. Israele è spaccata. Non si è costruito nemmeno ieri l'epos nazionale che qui tanto bene accompagna la morte eroica fin dalla guerra nel '48, perché è segnale di unità la morte per la vita futura dei figli di un popolo intero. Non è accaduto. In piazza Rabin, ex piazza Re d'Israele a Tel Aviv, dove il premier assassinato visse i suoi ultimi momenti, mentre a Gerusalemme si svolgevano le cerimonie ufficiali s'è radunata ancora una volta una gran folla di ragazzi piangenti. Alla radio intanto venivano trasmesse le memorie e i commenti di ciascuno, la disperazione e anche il pentimento di alcu¬ ni religiosi. All'università di Bar Ilan da dov'è uscito l'assassino, durante una cerimonia di ricordo del leader scomparso un rabbino ha ripetuto che la mente che partorisce l'idea di un delitto come quello perpetrato da Ygal Amir è una mente certamente non religiosa, dominata solamente da un'ossessione politica, piena di un blasfemo disprezzo per U più sacro frutto della creazione, l'Uomo che è simile a Dio. Ma un anno fa la grande tempesta emotiva che seguì 0 delitto sembrava essere il segno di una crisi di coscienza che avrebbe consacrato per sempre la vittoria delle idee di Rabin, ovvero il trionfo della pace, invece alle elezioni ha vinto la parte politica a lui avversa. Molti dissero addirittura: ha vinto Ygal Amir. E mentre una gran parte del Paese considerò l'assassinio un disastro, l'altra parte vi vide un segno divino, confermato poi dalla sconfitta di Peres. Ed è anche vero che proprio nell'anniversario della morte di questo eroe della pace la deputata radicale Yael Dayan ha ricevuto una tazza di tè bollente in faccia, gettatale da un colono di Hebron. Restano troppi brutti ricordi sospesi, fra cui quello della manifestazione in cui Netanyahu, prima d'essere premier, sentì la folla che urlava a Rabbi «traditore, assassino» e vide le sue foto grottescamente martoriate, eppure tacque. Quanto tempo ci vorrà dunque perché la frattura si saldi, e perché Rabin salga nell'empireo degli eroi non solo per la sinistra ma per tutta quanta Israele, intera? Fiamma Nirenstein