Spike tee neobuonista

Metamorfosi d'artista nel nuovo film «Get on the bus» Metamorfosi d'artista nel nuovo film «Get on the bus» Spike tee, neobuonista Addio invettive, ora predica NEW YORK. Quindici uomini, tutti neri, partono su un autobus da Los Angeles, per andare a Washington alla «Million Man March», organizzata da Louis Farrakhan. E' l'ultimo film di Spike Lee. «Get on the bus», appena arrivato nei cinema americani, proprio a un anno da quella discussissima marcia. Per sei giorni i tipi più disparati convivono in un ridottissimo spazio vitale. Ci sono due gay alla fine di una storia d'amore, un poliziotto, figlio di una bianca e di un nero, ammazzato da un ragazzo di una gang. C'è il ragazzo di una gang pentito, un attore, hi attesa di scrittura, un maniaco della cinepresa, un padre col figlio quindicenne ladro, condannato dal giudice a rimanere incatenato per 72 ore, un ricco repubblicano spaccone, un vecchio scappato da un ospedale. La guida (Charles S. Dutton) di questo autobus incandescente butta acqua sul fuoco e l'autista ebreo (Richard Belzer) tace. Non accetta provocazioni e guida finché può. Due ore chiusi in questa gabbia potrebbero scatenare la claustrofobia dello spettatore. Il regista, invece, riesce a condurci con leggerezza dall'Ovest all'Est per arrivare a destinazione. La meta di questo viaggio ideale non è Washington, ma l'amicizia fra i quindici disparatissimi viaggiatori e la presa di coscienza di sé. Uno Spike Lee tanto buono non si era ancora mai visto. Provocatore, impegnato, polemico, come è sempre stato, questa volta si trasforma in predicatore a ritmo di rap e di blues. Vogliamoci tutti bene, siamo tutti fratelli, non siamo schiavi solo per colpa dei bianchi, ma anche di noi stessi... Potrebbe sembrare un polpettone. E invece per un pelo riesce a salvarsi. Grazie alla bravura degli attori, ai dialoghi serrati, alla colonna sonora di grandi, da Stevie Wonder a Michael Jackson. Il viaggio, nel complesso, ha una sua follia e un umorismo costante, che travolge 10 spettatore e lo tiene col fiato sospeso. Non è un'opera d'arte, ma certamente l'opera di un artista che ha voglia di fare un po' di bilanci. «Con questo film non rispondo certo a tutti i dilemmi della comunità nera», dice, «non voglio trasformare a tutti i costi le catene in legami, ma stuzzico gli afro-americani a prendere in mano la propria vita». Il costo è basso: due milioni e 400 mila dollari, raccolti nell'ambito della stessa comunità. 11 che non vuole dire che è un film marginale. Fa parte infatti di quel 45 per cento di produzioni con attori di colore, che stanno invadendo le sale cinematografiche americane. Fino all'estate scorsa era un fenomeno presente, ma non eclatante. Da ottobre, invece, almeno un film su due in America ha un attore di colore come protagonista. I vari Denzel Washington, Samuel L. Jackson, Whitney Houston, Whoopi Goldberg, Will Smith oggi, più che mai, garantiscono una straordinaria affluenza di pubblico. La popolazione nera negli Stati Uniti è del 12 per cento, ma la sua affluenza ai botteghini è del 25. Il che quest'anno si è tradotto in un incasso di un miliardo e mezzo di dollari. Ecco perché la rivista Ebony e la Black Entertainment Television hanno appena annunciato che in primavera apriranno un nuovo canale televisivo dedicato esclusivamente a film con attori neri. Anche le giovani leve stanno prendendo posti di primo piano. In quest'ultima stagione Jeffrey Wright interpreta «Basquiat», Marianne Jean-Baptiste «Secrets and lies», di Mike Leigh, che ha vinto a Cannes, Sean Nelson recita a fianco di Dustin Hoffman in «American Buffalo», e lo stesso And Deaundre Bonds è il quindicenne ladro di «Get on the bus». Spike Lee, però, rimane scettico. «Siamo sempre stati davanti alla macchina da presa», dice, «adesso i territori da conquistare sono i posti di comando. E la vera novità sarà quando ci saranno afro-americani alla presidenza e al controllo delle grandi case di produzione». Fiamma Arditi us» a ca

Luoghi citati: America, Cannes, Los Angeles, New York, Stati Uniti, Washington