Velàzquez un genio in cerca d'identità

Velàzquez, un genio in cerca d'identità A Edimburgo una mostra sui primi passi del giovane pittore nelle botteghe di Siviglia Velàzquez, un genio in cerca d'identità Tv* EDIMBURGO I ' / E' una non misteriosa ma miracolata continuità, tra li le ovattate sale ottagonali M Ideila Galleria Nazionale, che indossano il sapore di cuoio di un vecchio club con corbeilles rinnovate di fiori ogni giorno, che ambientano una galleria di veneti da far invidia a qualsiasi nostro museo e la mostra calibratissima, che si tiene sino a finire di ottobre, dedicata al giovane Velàzquez. Indolormente si passa dunque da questa esemplare galleria, alle opere ancora sivigliane dell'incomparabile genio spagnolo, che qualche goccia di strano sangue portoghese conserva nel suo formidabile Dna. In fondo quello è il percorso trasparente della sua cultura: Tiziano, Veronese, Tintoretto, El Greco. Una mostra intelligente, architettata intorno a un gioiello della collezione: Il venditore d'acqua. Un Velàzquez non ancora inconfondibile, non ancora Velàzquez, ovvero senza i suoi colori inventati e «evenienti» sulla tela, con quell'artificialissima naturalezza d'un fiore che sboccia all'improvviso, nella educata pittura uscita dal Rinascimento come da un collegio elegante. Un Velàzquez alla ricerca di identità, ma non meno seducente e magnifico, sia pure contrito entro stoffe penitenti e monocolori di tinte basse, ferme, di stampo caravaggesco: pittura d'orcio, di canapa e di saio, lui che amerà muovere poi la pittura con brezze irritate e nervose. In questa città, a cavallo sul Guadalquivir, città di vescovi e di sante come la martire Rufina, Velàzquez nasce nel 1599 e si mette a bottega dal tardo manierista Herrera il Vecchio, prima di passare col pacifico mestierante, ma trattatista illustre, Pacheco, che sarà anche suo suocero. Ed è interessante leggerlo proprio nel contesto del suo soffocante ambito, tra Alonso Cano e il tenebrista Del Mazo. E' proprio comunque Del Mazo a raccontarci con una minuziosa carrellata da bambocciante cresciuto, la Plaza Mayor di una Siviglia picaresca e fosca, formicolante di omicidi, rapine, duelli, asini cer- vantini che calciano otri, femmine che tramano adulteri e mezzane che ricamano intrighi sfacciati, in un tessuto palpabile di violenza e miseria, che la Milano di Manzoni sembra un educandato da Madama Formentóni. Quelle vedute che spesso si trascurano durante i giri obbligati nei Palazzi Reali e che vellicano ahimè le interminabili ambizioni verbose delle guide autorizzate. Utilissime, questa volta, invece, per capire da dove nascono quei cieli arroventati e torbidi della prima pittura, «veneziana», di Velàzquez e che si incarneranno poi in quei fondi imprendibili e ciechi, dove ingabbia i suoi ritratti cardinalizi, che tanto suggestioneranno Bacon e Whistler e Sargent. Nel 1622, con la scusa di visitare l'Escoriai, tenta la prima fuga a Madrid, dove si stabilirà negli anni a venire, finalmente trasformato in Pintor del Rey. Ha con sé una lettera di Pacheco al poeta Góngora, che non riesce però a farlo penetrare nel soffocante ambiente della corte. Ma ne sortisce comunque quello splendido ritratto di Góngora, in mostra, che compare in scena come un intellettuale Anni Trenta in visita alle Giubbe Rosse, insomma un Carlo Bo madrileno, scuro e sospettoso. Con la pennellata magra e micragnosa, i baffetti ermetici, e concentrata sulla carnagione di cenere tutta una stagione di rancori accademici, di rinunzie, di ripicche e miserie: un modernissimo catalogo anatomico intasato di ubbie e reticenze. Ma è geniale anche il ritratto di Madre Jeronima de la Fuente, in polverosi abiti da viaggio (sta veleggiando da Cadice verso le Filippine) con quelle vene che scattano come manette sulle mani volitive di rude badessa. Eppure Velàzquez, a quella data, è soprattutto pittore sublime di cose, così umili da non pretendere nemmeno più di suggerire l'idea nobile d'un emblema, d'una vanitas. Povere creature dimenticate da Dio, cose-pitocco, che proiettano sulla tela come l'esitante ombra di una bava di lumaca, che si trascina riluttante sulla scena. Minimi romanzi di ciotole anonime, saliere impiastrate di sughi, tozzi di pane raf- fermo, di cui si ricorderà persino Dali, per una celebre natura morta iperrealista. Ma già vedi che dentro questo realismo, così estremo, che finisce per evaporare bollendo tra le salse di una trasognata fissità allucinatoria, si sta risvegliando come un animale quel colore immediato e incantatorio, che fa letteralmente nascere le cose sulla tela, davanti allo stupore del riguardante, folgorato sulla via della nuova pittura, che con lui «sperimenta la svolta più radicale dagli esordi giotteschi» come ritiene il filoso¬ fo Ortega, snobbando sciovinisticamente Caravaggio. Verità caravaggesche, ma senza rischiare il sacrilegio blasfemo: più suggestionato dalla verità della bellezza, che non dal naturalismo italiano, sia che canti quella slavina di rasi della inaugurale Immacolata Concezione, sia che si soffermi come un'ape a miniare, con prodigiosi mimetismi alla Ribera, gli sbuffi pitoccheschi della giubba lisa dell'acquaiolo, compresso entro quell'addensarsi sgarbato di corpi, traditi dall'impazienza di chi ha sete. E basterebbe a dire un genio della pittura, quella minima impurità di vita dipinta, che non sai se sia una lacrima d'acqua o un incidente sulla superficie cotta dell'orcio di ceramica. Ma è nei quadri sacri che il Velàzquez sivigliano cerca il riscatto, in quella splendida Adorazione dove s'affacciano dei magi biscazzieri, che dispongono i loro temperamenti come prove di colore, pennellate sulla tavolozza. Eppure è il Bambino a monopolizzare l'attenzione, con quello squillo di bianca luce ghiacciata, che è una vera, nascente epifania della pittura e quell'espressione sorridente e maliziosa da «bimbo vispo» in accezione gotica, che ha appena abbandonato la grotta materna e si accinge a sperimentare il mondo, che gli s'inginocchia intorno, sgomento. Anche se poi è per noi inevitabile inchinarsi di fronte a quella Vecchia che frigge le uova, con quella carnagione livida e malsana, allevata tra i fiati guasti dello scantinato e i gesti un poco d'automa, risentiti. Con il bianco d'albume domina la tavolozza e il coltelluccio appena posato di sguincio e d'impeto, sul piatto, perché non si franga nella fretta il tuorlo, che attende l'occhio di bue in religioso silenzio. Proprio da questa stagione di esattezza allucinata nascerà la pittura inconfondibile che fa di Velàzquez un pittore unico nella sua assoluta originalità, «il più grande», come decretò Manet, il pittore dei pittori. Pittura che non vuole imitare ma mettersi in scena come pura pittura. Marco Vallora Uno stile non ancora inconfondibile, senza i colori «inventati» della maturità Soffocato tra i maestri in una città fosca che trama intrighi adulteri, omicidi Tre quadri di Velàzquez: a sinistra, «Il venditore d'acqua»; qui sopra, «Ritratto di Madre Jeronima de la Fuente»; a destra, «Vecchia che frigge le uova» Particolare dell'autoritratto

Luoghi citati: Cadice, Edimburgo, Filippine, Madrid, Milano, Rufina, Siviglia