IL MITO della RUGGINE

E' polemica sulla ristmtturazione della tipografìa del «Corriere»: le fabbriche dismesse tra nostalgia e progetti culturali E' polemica sulla ristmtturazione della tipografìa del «Corriere»: le fabbriche dismesse tra nostalgia e progetti culturali IL MITO «jRUGGINE AMILANO LL'APPARENZA è solo una delle innumerevoli piccole controversie tra — architetti. C'è la grande firma Vittorio Gregotti che ha ricevuto l'incarico di ristrutturare l'edificio in ferro e vetro che ospitava le rotative del Corriere della Sera, lì tra via Solferino e via San Marco dove il pavé delle strade segnala la prossimità di Brera e la vecchia Milano davvero elegante si preserva ancora dai marmi nipponici di via Montenapoleone. Il più grande giornale d'Italia ormai viene stampato nella moderna tipografia sorta nell'hinterland, e la Rcs ovviamente deve riadattare a uffici lo spazio svuotato dagli impianti. Ma ecco che arriva la lettera firmata da un gruppo di architetti per chiedere che quel ferro e quel vetro restino al loro posto, così come negli Anni Sessanta li aveva concepiti Alberto Rosselli, genero di Gio Ponti: «Si tratta di un esempio riuscito di architettura industriale - dice la lettera - e non è auspicabile per questa città vedere cancellati importanti episodi di architettura». Gregotti replica senza peli sulla lingua che l'edificio non ha valore storico e architettonico. Secondo lui.quella degli architetti sarebbe solo una testimonianza di solidarietà alla vedova Rosselli che vorrebbe veder conservata l'unica opera del marito visibile a Milano. «Rispetterò quella struttura di ferro, ma mi lasci dire che si sente nell'aria un'assurda ossessione di positivismo storicistico, per cui bisognerebbe sempre conservare tutto». Non sappiamo chi la spunterà tra Gregotti e la vedova Rosselli, ma la vicenda di via San Marco è rivelatrice di quanto la ruggine degli stabilimenti dismessi e diroccati nell'epoca del post-industriale stia primeggiando non più solo nelle politiche culturali degli assessorati, ma anche dentro le nostre percezioni estetiche, nel nostro immaginario. Consumati gli anni dolorosi della chiusura (o del decentramento) delle fabbriche, cosa sono diventati per noi quegli enormi cadaveri di cemento che in Albania o in Ucraina vediamo di nuovo riempirsi di macchinari obsoleti, tanto lì il lavoro manuale si compra a prezzi stracciati? Nelle tenebre delle nostre notti metropolitane ci immaginiamo questi luoghi inquietanti riempirsi degli extracomunitari che non trovano rifugio più accogliente in cui stringersi nel cartone. Ma sempre quegli stessi ambienti, una volta svuotati del lavoro e della disperazione umani, diventano il luogo del consumo culturale e di massa e di lusso: centosettantamila visitatori al Lingotto di Torino per il Salone JjjÉ| della Musica; il jet set interna- ÌSBÈ zi°na^e all'An^9 saldo di Milano ■K'^t per le sfilate di ;|| Giorgio ArmafeWm ni; mentre a " Biella l'ex laniJj ficio Trombetta |1 viene destinato §|§§|§ a laboratorio per un artista d'avanguardia come Michelangelo Pistoletto. Quanto sia paradossale contestare Vittorio Gregotti come profanatore dell'esteti- ca industriale ce lo dice la stessa biografia del più famoso architetto italiano. Ha appena pubblicato da Bollati Boringhieri un volumetto di ricordi, Recinto di fabbrica, sull'infanzia trascorsa dentro lo stabilimento tessile del padre, cioè il luogo che «sarebbe divenuto magazzino di materiali con cui comporre molte delle mie azioni nella vita futura». Che sia proprio così, lo conferma perfino lo studio di via Matteo Bandello, a fianco del carcere di San Vittore, che Gregotti ha inventato con Pierluigi Cerri e Augusto Cagnardi: altro non è che un'ex fabbrica di mattoni ristrutturata conservandone l'atmosfera di laboratorio industriale. E di quali altri grandi progetti potrebbe occuparsi un architetto oggi in Italia, se non del riutilizzo degli spazi industriali dismessi? «Ormai lavoriamo sulla grande fascia della ruggine», scherza Pierluigi Cerri. Da teorico, Gregotti precisa: «Sviluppo fi- J|é sico e sviluppo econo- ||||| mico non coincidono Wm più. In assenza di crescita demografica è logico che si costruisca sotto forma di riuso piuttosto che occupando nuovo territorio». Ma questo risulta fin troppo ovvio: nella congestione delle nostre metropoli è già da qualche anno che chiunque ricerchi uno spazio nuovo per hhmmklisllil attività culturali, universitarie, di servizio, deve puntare sulla ristrutturazione di aree precedentemente occupate dall'industria. Lo stesso Gregotti oggi è alle prese pure con l'area della Bicocca, che fu Pirelli, dove andremo ad applaudire perfino Riccardo Muti e la Scala se non avranno la meglio i nemici di questo trasloco provvisorio. Dire Bicocca vuol dire un'area che arriverà a contenere quarantamila abitanti tra università, aziende e istituti di ricerca. «Ancor più complesso - spiega Gregotti - è il riuso di uno spazio enorme come quello dell'ex Lanerossi a Schio, perché lì l'area dismessa è isolata, non può essere usufruita da un grosso centro». La domanda però è un'altra. Perché questi scheletri industriali diventano simboli del nostro tempo? Che significa la moda della ruggine? Il regista Gabriele Salvatores è in sala di montaggio. Il suo Nirvana film surreale ambientato in una megalopoli dell'immediato futuro - ha appena finito di gi¬ rarlo dentro al Portello, il vecchio stabilimento Alfa Romeo da cui uscivano gli operai nell'ultima inquadratura di Rocco e i suoi fratelli. «Ho costruito i miei spazi scenici in quei 160 mila metri quadri, tra tubi di aerazione, enormi sale mensa, scritte murali e depositi per pacchi dono natalizi. Lo riconosci bene, il Portello, come luogo di fatica e sfruttamento, e proprio in ciò risiede la sua suggestione». Quale suggestione? Cosa ne verrà agli spettatori del film? Risponde Salvatores: «Suggestiva è la forza di un lavoro che non facciamo più, il fantasma della classe operaia che verrà riconosciuto non nell'archeologia industriale - perché le immagini sono rielaborate al computer - ma nei paesaggi e nei materiali evocativi della fabbrica». E' fin troppo scontato ricordare quanto cinema di questi anni abbia scelto di ambientarsi tra le macerie degli stabilimenti, perfino quando ciò implicava un salto temporale di secoli come nel caso del Riccardo III di Richard Loucraine. Il rosso del mattone friabile e del rottame ossidato, il grigio del tondino deforme e del cemento senza intonaco appaiono come materiali modernissimi di una nuova estetica ormai egemone sul muro bianco, la moquette e il gusto pop. «Ma certo - spiega Salvatores perché il tondino storto e il muro scrostato ti trasmettono l'energia vitale del lavoro che contengono, mentre il muro bianco e la moquette non ce l'hanno». «Si avverte un forte bisogno di fissare la memoria recente», spiega ancora Gregotti, secondo il quale «sebbene quel tipo di fabbrica fosse anche un luogo di conflitto e di violenza, emanava un senso di comunità del quale proviamo nostalgia. Perché non ci sono più dei luoghi così forti di aggregazione». Si spiega forse con ciò l'eccesso di «positivismo storicistico», il «conservare qualunque ricordo», che ha portato un gruppo di architetti milanesi fino a chiedere a Gregotti - di fronte alla vecchia tipografia del Corriere - lo stesso rispetto invocato per le opere d'arte. Viviamo il tempo di un operaismo immateriale. Tutti in fabbrica, dunque. O al mattatoio, nel caso di Roma. O ancora nei magazzini, negli hangar, negli arsenali, nelle stazioni ferroviarie fuori uso. A far concerti, sfilate, mostre d'arte, fiere, convegni, summit, rappresentazioni, feste, raduni. Quasi che volessimo godere così, con rispetto e malinconia di fine secolo, i frutti di un'accumulazione irripetibile. Gad Lerner Gregotti: «C'è nell'aria un'assurda ossessione, si vorrebbe conservare tutto» Salvatores: «Ivecchi capannoni coi muri scrostati trasmettono I'energia del lavoro scomparso» LE GRANDI METAMORFOSI TORINO Lingotto Ferriere Fiat MILANO Bicocca Ansaldo - Portello VENEZIA Mulino Stucky GENOVA Il porto (Renzo Piano) Italsider ROMA Mattatoio Testacelo NAPOLI Bagnoli un gruppo di dere che quel restino al lome negli Anni concepiti Alnero di Gio i un esempio ettura indutera - e non è esta città veportanti epira». Gregotti sulla lingua ha valore stoico. Secondo architetti saestimonianza vedova Rose veder conera del mariano. «Rispetura di ferro, che si sente da ossessione ricistico, per sempre con chi la spun e la vedova cenco è i e per il Salone JjjÉ| della Musica; il jet set interna- ÌSBÈ zi°na^e all'An^9 saldo di Milano ■K'^t per le sfilate di ;|| Giorgio ArmafeWm ni; mentre a " Biella l'ex laniJj ficio Trombetta |1 viene destinato §|§§|§ a laboratorio per un artista d'avanguardia come Michelangelo Pistoletto. Quanto sia paradossale contestare Vittorio Gregotti come profanatore dell'esteti- architetto oggi in Italia, se non del riutilizzo degli spazi industriali dismessi? «Ormai lavoriamo sulla grande fascia della ruggine», scherza Pierluigi Cerri. Da teorico, Gregotti precisa: «Sviluppo fi- J|é sico e sviluppo econo- ||||| mico non coincidono Wm più. In assenza di crescita demografica è logico che si costruisca sotto forma di riuso piuttosto che occupando nuovo territorio». Ma questo risulta fin troppo ovvio: nella congestione delle nostre metropoli è già da qualche anno che chiunque ricerchi uno spazio nuovo per Il porto (Renzo Piano) Italsider ROMA Mattatoio Testacelo NAPOLI Bagnoli Perché questi scheletri industriali diventano simboli del nostro tempo? Che significa la moda della ruggine? Il regista Gabriele Salvatores è in sala di montaggio. Il suo Nirvana film surreale ambientato in una megalopoli dell'immediato futuro - ha appena finito di gi¬ puter - ma nei paesaggi e nei materiali evocativi della fabbrica». E' fin troppo scontato ricordare quanto cinema di questi anni abbia scelto di ambientarsi tra le macerie degli stabilimenti, perfino quando ciò implicava un salto temporale di Salvatores: h «Ivecchi h capannoni mm coi muri k scrostati lisllilii trasmettono I'energia del lavoro { i scomparso» comunità del nostalgia. Perpiù dei luoghigregazione». Si spiega forso di «positiviil «conservaredo», che ha porarchitetti mila La tipografìa del «Corriere»: Gregotti ha un progetto per ristrutturarla, ma un gruppo di architetti si oppone Il Lingotto di Torino: è diventato un luogo di congressi, mostre, negozi e manifestazioni culturali, ultima delle quali il Salone della Musica