La vecchia politica che frena la manovra di Massimo Giannini
=1 NOMI E COGNOMI La vecchia politica che frena la manovra ERI mattina - riferiscono le agenzie di stampa - il presidente del Consiglio Prodi ha ricevuto a Palazzo Chigi Gianfranco Schietroma. Massi, proprio lui, un valoroso «reduce» socialdemocratico oggi fervente ma irrequieto ulivista. Insomma, uno della nobile schiatta dei Pietro Longo, dei Nando Facchiano, degli Emilio De Rose. Nomi e personaggi da antologia di Spoon River, giustamente persi negli anfratti della memoria, ma che a ricordarli oggi suscitano persino una punta di malinconica tenerezza. Ai quali (anche a loro) il premier si è sentito in dovere di dare solerti garanzie su alcune essenziali modifiche alla Finanziaria. In quelle stesse ore, quasi a simboleggiare le vischiosità e gli anacronismi di cui tuttora è ammalata la nostra Politica, nella grande Europa accadevano altri due fatti. Il primo: in un'intervista a Le Monde il presidente della Bundesbank Hans Tietmeyer - pur anticipando il benvenuto della banca centrale tedesca a tutti i Paesi che saranno pronti ad aderire all'Euro già dal gennaio del 1999 - confermava che la premessa per quell'adesione è e resta il rigoroso rispetto dei parametri del Trattato di Maastricht, e dunque un risanamento dei conti pubblici strutturale, non episodico né raggiunto a colpi di «una tantum». Il secondo fatto: a Bruxelles la Commissione europea approvava il «patto di stabilità», cioè quell'ulteriore e inclemente vincolo di bilancio cui saranno legati i Paesi aderenti all'Euro. Ora, non sappiamo quali utili spunti abbia fornito il buon Schietroma al presidente del Consiglio, su questi argomenti. E soprattutto non sappiamo quali preziosi consigli possa avergli prestato, in vista dell'importantissimo vertice che Prodi avrà oggi con Helmut Kohl. Ma una cosa è certa: sul tema di Maastricht e della nostra adesione alla moneta unica, l'Italia farà bene d'ora in poi ad essere «più realista del re». O meglio, a diventarlo, visto che fino a qualche settimana fa, cioè prima dell'impennata d'orgoglio con la quale il ministro del Tesoro Ciampi ha di fatto imposto il «raddoppio» della manovra, avevano prevalso i tatticismi diplomatici di vecchio stampo andreottiano, i tentativi di politique d'abord tra i Paesi deboli dell'area latina, insomma, il comodo «rinviamo Maastricht» contro il tetragono rigore delle tecnocrazie francotedesche. Ora, nella condizione in cui siamo la Finanziaria - con tutte le sue pecche, denunciate anche dal governatore Fazio - è comunque un asso che il gover no italiano ha oggettivamente e inaspettatamente calato, al grande tavolo della trattativa sull'Unione monetaria. Un asso che testimonia, per lo meno sul piano quantitativo, della nostra volontà di giocare fino in fondo la partita di Maastricht insieme ai Paesi virtuosi. Che poi ci si riesca davvero - con le incognite che ancora ci sono - è un altro paio di maniche. Ma esitare adesso, dopo aver calato quell'asso, o magari continuare a sperare che la partita sia sospesa o rinviata, sarebbe un suicidio politico per il governo, ed economico per il Paese. Perché sarà pur vero, come denuncia Giscard d'Estaing o come scrive John Laughland sul Wall Street Journal, che il progetto dell'Uem è in mano alle «anti-democratiche» o persino «disoneste» tecnocrazie centroeuropee. E sarà pur vero che quelle stesse tecnocrazie guardano all'Italia con una insopprimibile diffidenza, al punto che a Parigi e a Francoforte ha destato addirittura qualche fastidio oltre che un ovvio stupore, visto il «Dna» neogollista del personaggio - la retromarcia di Chirac sulla lira sopravvalutata. Ma, forse, proprio per queste ragioni ora Prodi deve accettare 0 gioco duro, come del resto stanno facendo la Finlandia, appena entrata nello Sme, e il Portogallo del premier socialista Guterrez, che ha appena varato - dopo la Spagna del conservatore Aznar - la sua brava maxi-manovra. Certo, visto l'andamento dell'economia reale sarebbe più agevole per l'Italia chiedere e imporre che, alla partita di Maastricht, cambiasse qualche regola. Ma per questo servirebbe la Grande Politica, e soprattutto una grande tradizione storica, che non abbiamo mai avuto. Perché tra le altalenanti sortite di Prodi, tra quel «siamo un grande Paese, ma non contiamo niente» pronunciato prima dell'estate dalla tribuna del congresso della Cgil a quell'infelice «faremo vedere i sorci verdi all'Europa» minacciato dopo la polemica con Aznar, è sicuramente più vera la prima. Si può recuperare, ma appunto, solo se - in attesa che spunti la Grande Politica - non ci si lasci intimidire dal «gioco duro» delle tecnocrazie. Né, tanto meno, dai ricatti bertinottiani, o dalle preci dell'indomito Schietroma. Massimo Giannini
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