Perché si parla di macroregioni

Perché si parla di macroregioni LETTERA Perché si parla di macroregioni Caro direttore, la recente intervista di Giuliano Amato sui rischi del federalismo, raccolta e scritta da Gad Lerner, contiene alcuni aspetti preoccupanti. In primo luogo, non posso fare a meno di notare il modo sostanzialmente errato con cui vengono citati gli studi della Fondazione Agnelli sulla riform& federale dello Stato. E' difficile assegnare all'intervistato o all'intervistatore la responsabilità dell'informazione errata, ma resta il fatto che si attribuisce alla Fondazione Agnelli l'avere disegnato a tavolino «tre o quattro macroregioni». In verità, la nostra proposta di ridisegno regionale, formulata nel 1992 sulla base di alcuni espliciti criteri di razionalità economica e amministrativa, parlava di dodici regioni. A volere tre o quattro macroregioni era allora la Lega Nord. Ancor più mi preoccupa l'idea di fondo che traspare da tutto il contesto dell'intervista, riportata anche nel sommario «Prendere la carta geografica e tracciare confini artificiali delle macroregioni è come generare figli in provetta-/). Ora, tutta la cultura innovativa per definizione studia modelli e suggerisce ipotesi di cambiamento, che qualche volta si realizzano, altre volte restano teoriche. In un normale gioco delle parti fra la cultura e il resto della società, a me pare che questa sia proprio la funzione della cultura, che si aspetta che le proprie idee diventino processi reali e concreti attraverso l'azione di altri soggetti, in primis le forze politiche. La proposta di riforma in senso federale dello Stato allo studio della quale ho impegnato in questi anni l'istituzione da me diretta è stata esposta con compiutezza in un libro edito alcuni mesi or sono che ha per titolo Un federalismo dei valori. Nel volume si partiva appunto dai valori sui quali fondare la costruzione di una riforma federale e insieme di una nuova etica pubblica: la responsabilità, l'autogoverno, la sussidiarietà, la solidarietà. Ma non ci si limitava all'enunciazione di principi e si formulavano delle proposte concrete. Fra queste, ricordo le revisioni costituzionali relative alla ripartizione di competenze fra centro e periferia, atte a realizzare un vero salto culturale e insieme legislativo, introducendo una cultura della collaborazione fra le Regioni, gli Enti locali e l'amministrazione federale, e le ipotesi di federalismo fiscale, nelle quali si tenevano in conto ie esigenze, niente affatto astratte, di solidarietà verso il Mezzogiorno. In questo quadro, si diceva anche che il processo di riforma in senso federale va avviato a partire dalle venti Regioni esistenti. Potranno poi essere le stesse Regioni, una volta fatta esperienza degli oneri, oltre che degli onori, del federalismo fiscale e dell'oggettiva scarsità di risorse, a porsi, liberamente, il problema di rendere più efficienti le loro strutture, anche attraverso soluzioni di accorpamento. Certo, la riflessione sulla dimensione più «giusta» per aumentare l'efficienza delle strutture amministrative resta un tema centrale. Lo si discute in tutto il mondo, non si vede perché non debba essere affrontato in Italia, con i suoi 8000 Comuni, le 100 Province e le 20 Regioni. La riforma in senso federale non deve diventare un mito, ma deve essere uno dei grandi processi di rinnovamento della società e delle istituzioni italiane. E' una risposta che a noi pare adeguata sia alle richieste di maggiore autonomia che vengono dai territori italiani sia alle sfide che la competizione internazionale sta ponendo a quegli stessi territori. E' preoccupante che il mondo politico, che dice di voler fare passi in avanti e di recuperare spazi occupati da altri, non senta la necessità e l'urgenza di occupare, con contenuti non più impressionistici e confusi, lo spazio dell'innovazione in materia costituzionale. Che la Fondazione Agnelli abbia assunto un ruolo così evidente sul tema della riforma dello Stato suscita in me uno stato d'animo complesso e contraddittorio: da una parte, come professionista e come direttore dell'istituto sono naturalmente soddisfatto del lavoro svolto e del servizio reso al dibattito politico e culturale; come cittadino sono perplesso, se non preoccupato, nel constatare la scarsa volontà del mondo politico di riacquisire lo spazio della grande progettualità. Se le proposte della cultura suonano artificiali è solo perché le orecchie di chi dovrebbe intendere sono sorde o, quanto meno, disattente. Marcello Pacini Direttore della Fondazione Giovanni Agnelli

Persone citate: Gad Lerner, Giuliano Amato, Marcello Pacini

Luoghi citati: Italia