le macerie sotto il cielo di Kabul

L'ordine ferreo degli «studenti di Allah» su una città che non conosce tregua L'ordine ferreo degli «studenti di Allah» su una città che non conosce tregua le macerie sotto il cielo di Kabul Nella capitale sventrata dall'ennesima guerra KABUL DAL NOSTRO INVIATO La strada, un tempo asfaltata, che da Jalalabad portava alla capitale attraverso gole paurose e strapiombi lunari, non c'è più. Ci si passa ancora, spesso per miracolo, in mezzo a vortici di polvere sollevati dalla fila interminabile di camion che si snoda per centocinquanta chilometri su quella che è diventata una carovaniera tempestata dai crateri delle bombe. Ci si passa per forza, perché ormai è l'unica via di rifornimento per il milione e mezzo di persone che ancora vivono a Kabul. L'altra via breve, quella che porta al Passo di Salang, verso le province del Nord, Mazar-i-Sharif, l'Uzbekistan, è chiusa dalle truppe del generale Dostum. La terza, che viene dal Sud, da Kandahar, è troppo lunga, quasi cinquecento chilometri. Per un camion sono cinque giorni di viaggio in mezzo agli stessi crateri. I Taleban, vincitori nei tre quarti del Paese, si trovano a Kabul nella stessa, ingrata situazione che fu dei sovietici e di Najibullah. Del resto, quello che raccolgono è ormai un relitto. L'Afghanistan del 1996 non può più neppure ambire alla qualifica di Paese in via di sviluppo, o sottosviluppato: è un Paese in regresso, che va sprofondando nel passato. Lasciai Kabul nel 1992, subito dopo la vittoria dei Mujaheddin, in un tripudio di fuochi d'artificio che erano invece raffiche di Kalashnikov sparate verso il cielo. Durò settimane, io ne vidi tre giorni, di speranza: via i sovietici, via Najibullah, fine della guerra. Kabul era ancora quasi intatta. Non fu così. Torno dopo quattro anni e Kabul è un cumulo di rovine. Nella notte, sul filo del coprifuoco, è perfino difficile vedere che ancora esiste una città. I lampioni sono spenti come le finestre sbarrate delle case, senza vetri. I posti di blocco dei Taleban emergono all'improvviso nei fari dell'auto, con i Kalashnikov puntati ad altezza d'uomo e dietro occhi duri e impauriti e dita pronte a schiacciare il grilletto. C'è stata una fitta sparatoria a Nord, poco prima del buio, e tutti sono nervosi. Solo il mattino dopo si saprà - ma è poi vero? - che qualcuno aveva sparato in aria in segno di giubilo per la riconquista di Charikhar da parte dei Taleban. Silenzio e buio. Dalla finestra dell'Hotel Kabul Intercontinental, un tempo affacciata su una conca punteggiata di luci tremolanti nella foschia come le stelle del cielo immenso e sempre limpido, si vede solo una coltre nera con qualche rara e tenue smagliatura di giallo. Dal buio emergono solo, e si rincorrono, gli echi dei latrati dei cani. Buio e desolazione, anche se non si spara ed è già una gran cosa per tutti. La mattina, al chiaro, sarà meglio visibile l'enorme portata delle distruzioni attuate da quattro anni di guerra reciproca tra le fazioni islamiche che avevano condotto la loro guerra vittoriosa contro i sovietici e i comunisti locali. Non un solo edificio pubblico è intatto. Il bazar è sventrato in decine di punti. Il vecchio Hotel Kabul, in centro, è un cadavere con le orbite vuote. Le bombe e i razzi hanno fatto saltare tutti i vetri, crollare centinaia di case di tufo, hanno abbattuto moschee e negozi, crivellato le mura di ogni casa. Il nuovo ministro dell'Informazione e Cultura siede in un ufficio senza vetri, a tre settimane dalla vittoria dei Taleban. Il Palazzo delle Poste è attraversato da folate polverose di vento. Solo Grozny regge il confronto con Kabul, e lo vince, per la portata del disastro. Eppure la città brulica di vita. Si spazzano via i detriti, si ripulisce, si ridipinge, anche se non ci sono vetri, legno, vernici, plastica per riparare le distruzioni. E non ci sono soldi per pagare gli stipendi, perché il presidente Rabbani, islamico e pio, si è portato via la cassa. Difficile dire se i Taleban hanno l'appoggio della gente, qui a Kabul. E se chi racconta bene di loro lo fa perché ha paura. Ma quello che è certo, e che tutti confermano, è che loro non hanno bombardato Kabul Massud si ritirava verso il Nord. E da allora non si è più sparato a Kabul. La gente del bazar dice che adesso è meglio, che sono cessate le violenze e gli abusi, che questi ragazzi armati pregano e rispettano i viandanti, che non impongono taglie. Verificare è difficile. Certo è che ormai solo loro, senza divise, senza gradi, presidiano tutto. E solo loro sono armati, ma senza aria di superiorità, senza apparente iattanza, vestiti di stracci. E altrettanto certo è che non si vede più una sola donna a volto scoperto - e fino a quattro anni fa ce n'erano moltissime, soprattutto giovani - e tanto meno vestite all'occidentale. Chi deciderà cos'è meglio: se vivere senza guerra e con le donne più incatenate di prima, oppure il contrario? Sempre che sia questa l'alternativa. Anche se, nelle condizioni disperate di oggi, in Afghanistan, le due cose sembrano essere le due facce inesorabilmente sorelle della stessa medaglia. Una guerra santa contro l'in¬ fedele è già stata combattuta e vinta con l'aiuto di altri infedeli. Come ci ha detto ieri Amirullah Muttaqi, ministro dell'Informazione, «la Jihad è buona e vera solo se combattuta con intenzioni pure». Quelli che l'hanno fatta impuramente hanno violato poi tutte le regole islamiche, e sono, testualmente, «nemici del popolo». Massud lo è perché «ha diffamato il buon nome della Jihad». Ora bisogna farne un'altra, pura e vera. Se occorre, di nuovo con l'aiuto degli infedeli. Ma questo Muttaqi non lo prende in considerazione. Questi studenti di Dio sono venuti a portare ordine dopo l'abisso del disordine. Nell'Hotel Kabul, deserto di ospiti, tutti i bassorilievi dorati della facciata, raffiguranti figure umane, sono stati scalpellati e strappati dai sostegni. Adesso giacciono a terra, testimoni di un nuovo ordine, arcaico e brutale, che non conosce esitazioni e non ammette repliche. Giulietta Chiesa La notte è completamente buia i lampioni sono spenti. Alle finestre non ci sono più vetri Lunghe raffiche di spari a Nord sovrastano l'unico suono che si sente, il latrato dei cani razzi hanno fatto saltare tutti i vetri, crollare centinaia di case di tufo, hanno abbattuto moschee e negozi, crivellato le mura di ogni casa. Il nuovo ministro dell'Informazione e Cultura siede in un ufficio senza vetri, a tre settimane dalla vittoria dei Taleban. Il Palazzo delle Poste è attraversato da folate polverose di Eppure la città brulica di vita. Si spazzano via i detriti, si ripulisce, si ridipinge, anche se non ci sono vetri, legno, vernici, plastica per riparare le distruzioni. E non ci sono soldi per pagare gli stipendi, perché il presidente Rabbani, islamico e pio, si è portato via la cassa. Difficile dire se i Taleban hanno l'appoggio della gente, qui a Kabul. E se chi racconta bene di loro lo fa perché ha paura. Ma quello che è certo, e che tutti confermano, è che loro non hanno bombardato Kabul i lampioni sono spenti. Alle finestre non ci sono più vetri Lunghe raffiche di spari a Nord sovrastano l'unico suono che si sente, il latrato dei cani Chi deciderà cosè meglio: se vivere senza guerra e con le donne più incatenate di prima, oppure il contrario? Sempre che sia questa l'alternativa. Anche se, nelle condizioni disperate di oggi, in Afghanistan, le due cose sembrano essere le due facce inesorabilmente sorelle della stessa medaglia. Una guerra santa contro l'in¬ tel Kabul, deserto di ospiti, tutti i bassorilievi dorati della facciata, raffiguranti figure umane, sono stati scalpellati e strappati dai sostegni. Adesso giacciono a terra, testimoni di un nuovo ordine, arcaico e brutale, che non conosce esitazioni e non ammette repliche. Giulietta Chiesa Due soldati della coalizione anti-Taleban alla periferia di Kabul capitale Due soldati della coalizione anti-Taleban alla periferia di Kabul capitale

Persone citate: Dostum, Giulietta Chiesa, Massud, Najibullah, Rabbani